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Su Carbon Conundrum, di Philip Booth e Carlo Stagnaro

Per la decarbonizzazione non è sufficiente avere un bell’ingegno: la cosa importante è applicarlo bene.


Il semplice fatto di vivere una condizione comune può spingere gli esseri umani a sentirsi investiti di una centralità che è legittima solo in minima parte. Immaginatevi un tarantino che sostenga di avere la soluzione definitiva per l’Ilva, o un veneziano che vi dica, tutto serioso e corrucciato, che lui il Mose mica l’avrebbe fatto così male. Ecco, la risposta più sensata sarebbe, come è sempre, «vabbè, ma non è che essere del posto ti renda automaticamente capace di dire delle cose centrate su questa faccenda. È una questione difficile, bisognerebbe studiare, sentire il parere competente di chi ha a che fare con roba simile tutti i giorni, e poi pensarci bene». Per intendersi: si tratta di reazioni legittime, che spesso sono l’espressione di un sentire comune largamente diffuso, di una percezione intuitiva della giustizia che però ha poco a che fare con il livello di profondità di analisi necessario per trattare nel modo migliore questioni del genere. Per dirla con Descartes:


«Il buon senso è la cosa meglio distribuita al mondo: ciascuno infatti pensa di esserne così ben provvisto che anche coloro che in tutte le altre cose sono i più difficili da accontentare, non hanno l’abitudine di desiderarne di più di quanto ne hanno. Nella qual cosa non è verosimile che tutti si ingannino, ma piuttosto ciò attesta che la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è ciò che propriamente si chiama buon senso o ragione, è naturalmente uguale in tutti gli uomini; così la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che gli uni sono più ragionevoli degli altri, ma solo che percorriamo differenti vie di pensiero, e non prendiamo in considerazione le stesse cose. Infatti non è sufficiente avere un bell’ingegno: la cosa importante è applicarlo bene».

Ora, è evidente che questo meccanismo si innesca soprattutto per questioni locali: un migliaio di persone basta, soprattutto in una società fortemente policentrica e campanilista – dove la competizione per il primato locale sfiora, e spesso supera, i tratti della pochade (in questo Paese di maschi gourmet le zuffe per stabilire quale regione abbia il pomodorino più fragrante sono cronaca quotidiana). Il fatto è che questo modo di costruire il dibattito intorno alle questioni più stringenti – dalla presunta autorità del consobrino, che là ci vive e vuoi che non sappia come girano le cose, alla litigiosità campanilista – può al massimo scatenare delle gazzarre più o meno divertenti, ma di dubbia utilità quando si tratta di indicare soluzioni percorribili a questioni intricate come il cambiamento climatico. Ecco perché sarebbe bene confrontarsi spesso, con pazienza e dedizione, con approcci anche diversissimi tra loro – nel tentativo di cercare degli argomenti che falsifichino le proprie idee anziché cristallizzarle – magari partendo da quei parallelepipedi di carta che ancora provano a ragionare in maniera informata sulle cose (lo so, lo so: non tutti allo stesso modo, non dovrei generalizzare). Per esempio, iniziare leggendo Carbon Conundrum: How to save climate change policy from government failure (Institute of Economic Affairs) mi pare un bel modo di iniziare. Il bellissimo saggio di Philip Booth e Carlo Stagnaro, infatti, ha un pregio fondamentale: spiega nella maniera più efficace e intellettualmente onesta che niente è semplice, che pretendere di avere burro e cannoni non è una grande idea, ma soprattutto che, se è vero che alcune questioni riguardano tutti, a maggior ragione occorre procedere con metodo e rigore.

E però, dato che di metodi ne esistono parecchi, vale la pena cercare di capire come Booth e Stagnaro, con l’intento di parlare di una misura estremamente tecnica contro le emissioni di CO2, riescano a disegnare un sistema chiaro e rigoroso per produrre una buona policy energetica e ambientale, tenendo conto di tutte le trappole che il buon senso può tendere.


Il primo approccio alla questione ambientale che viene decostruito potrebbe rientrare nella categoria dei vizi di forma, o meglio, di tutti quegli errori – fondamentalmente interpretativi, ma spesso pure deontologici – nei quali incappano attivisti, politici o tecnici quando affrontano il tema della riduzione di anidride carbonica nell’atmosfera, spesso carichi di un fagotto di assiomi ideologici del tutto controproducente se l’obiettivo è considerare cause ed effetti di fenomeni estremamente stratificati, che chiamano in causa comunità di individui con esigenze di sviluppo diametralmente opposte. Un esempio particolarmente significativo riportato nel libro è la tendenza a ridurre tutta la faccenda a un uso improprio dell’espressione “fallimento di mercato”. Scrivono Booth e Stagnaro:


«Global warming was described, memorably, by Stern (2007) as the biggest market failure the world has ever seen. This is a tendentious description. We cannot define and trade property rights in an atmosphere containing a given level of carbon dioxide. Market participants cannot, therefore, benefit from their own actions in reducing carbon emissions or bear the costs of emissions. There is simply an absence of a market here – the market has not failed. Describing climate change as a market failure is like describing a car as a ‘car failure’ if it cannot sprout wings and fly» [p. 16].

Detto altrimenti, da sempre le misure di intervento nel settore energetico sono condizionate da una lunga lista di interessi strategici nazionali, a partire dall’interpretazione che ogni governo ha fornito di quest’espressione magmatica. Il risultato, almeno fino a questo punto, è stato un moltiplicarsi di scelte arbitrarie in materia di sussidi e defiscalizzazione che hanno falsato ogni meccanismo mercatistico, producendo una lunga serie di paradossi grotteschi – in molti paesi europei, per esempio, ai guidatori viene applicata un’accisa molto alta sui carburanti, il cui consumo è invece incentivato se ad acquistarli è un agricoltore. Eppure questo argomento sembra essere decisamente poco convincente per chi ritiene che solo gli stati abbiano gli strumenti per accedere a un set di informazioni e risorse utili per orientare con precisione dei processi che hanno enormi ripercussioni su tutti i settori dell'economia. Un pregiudizio paternalista di onniscienza da cui spesso si deduce un sistema di policy che vorrebbe rispondere a una domanda legittima: «a chi spetta decidere e attuare le decisioni?». E invece no: bisogne vedere, giudicare caso per caso, distinguere i diversi contesti.


Il fatto è che in questo modo le funzioni di efficientamento delle risorse operate dal mercato vengono dimenticate, come vengono dimenticate le arene internazionali e le competenze locali. Ed è un peccato, perché, come giustamente osservano Booth e Stagnaro, coinvolgere più livelli istituzionali, rispettando sempre il principio di sussidiarietà (e cioè individuando di volta in volta il livello istituzionale più adatto, per competenza e vicinanza al cittadino, a legiferare su una questione), è il modo migliore per stabilire una gerarchia di ruoli e compiti. Il principio one fits all, oltre a mortificare uno degli strumenti più affilati del processo democratico, ossia il pluralismo, carica lo stato di una responsabilità che mi pare più sensato distribuire nel tessuto socio-economico coinvolgendo diversi attori. Insomma, se la risposta al problema climatico si riduce nel confidare in un centralismo più o meno illuminato, il rischio è di produrre una sequenza indefinibile di sprechi. Che è un bel paradosso se il punto di partenza è quello di produrre meno emissioni.


Ma dato che qui si parla di policy, o più semplicemente degli strumenti da scegliere quando si cerca di fare politica, vale la pena elencare i tre criteri che, mi pare, bisognerebbe sempre tenere in considerazione. (1) Astenersi dal prediligere arbitrariamente qualsiasi tipo di tecnologia. Come sottolineano Booth e Stagnaro, i sussidi destinati a una qualsiasi risorsa energetica rinnovabile producono sempre due effetti collaterali: a) sottraggono investimenti e risorse alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie più efficienti, e b) rendono il policy-maker più soggetto a un’intensa attività di lobbying, che ovviamente non punta a un’efficiente allocazione delle risorse. (2) Prediligere un approccio trasparente. Spesso infatti, per consolidare il consenso, i politici tendono a proporre misure dai costi latenti, solo che a subire le conseguenze di simili win-win sono le categorie più fragili o meno tutelate. Per esempio: un provvedimento che incentiva l’acquisto di auto elettriche può essere presentato come un mezzo per abolire la povertà elettroattuata, salvo poi rappresentare uno sconto per chi già ha quella specifica propensione all’acquisto. (3) Tenere sempre in considerazione il tipo di incentivo che una misura innesca. L’esempio migliore è proprio la misura principale studiata da Booth e Stagnaro: una carbon tax che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni può funzionare benissimo; invece, se ci si augura che aumenti strutturalmente il gettito, magari ridistribuendo le maggiori risorse raccolte, si sta facendo un enorme errore di valutazione. Come si diceva all’inizio, non si può avere burro e cannoni. E forse, alle fine, è proprio questa la grande verità negativa che il libro cerca di trasmettere, evitando accuratamente di dare risposte apodittiche e cercando di delineare un metodo che vada oltre il buon senso. Una piccola gioia per Descartes, si parva licet.

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