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Vitaliano Trevisan: un profilo

Chi era Vitaliano Trevisan?

Works di Vitalino Trevisan, da Amazon


Vitaliano Trevisan aveva ragione, magari non su tutte le minuzie di cui si compongono le vite complesse di chi osserva il mondo con pazienza e dedizione, chi scrive e chi inventa, ma possedeva una ragione globale, vista dall’alto.


Tornare a parlarne, iniziare a parlarne, per chi come me non ha vissuto il suo esordio letterario, nel 2002, e ha dovuto recuperare la lettura di un grande autore contemporaneo, è un modo per imparare a guardare porzioni di realtà che non si offrono volentieri al nostro sguardo.

Non si presentano a noi pagine nostalgiche ma ruvide, permeate da uno spirito critico tagliente: molti numeri e coordinate, pochi slogan, gli strumenti della sociologia senza la tendenza al discorsivismo dei sociologi, una prosa senza flussi di coscienza ma libera dai vincoli che impone una trama strutturata.


L’urbanistica, l’etica del lavoro, la famiglia come istituzione caratterizzata da leggi inoppugnabili, resistenti al tempo, la distanza dal mondo di fuori, dall’estero, che per un vicentino è anche la provincia di Padova, la nevrosi e la solitudine. Trevisan ha ben chiaro su che cosa vuole soffermarsi e ne fa i punti fissi, non fermi, della propria opera, muovendosi avanti e indietro tra un testo e l’altro, scardinando convinzioni e miti radicati e rivelando l’origine recentissima di tradizioni che una certa retorica politica vorrebbe retrodatare, demistificando luoghi del cuore di qualcuno che non esiste, facendo nomi e cognomi di chi ha contribuito a deturpare una regione intera, il Veneto, e forse anche qualcosa in più.


L’esserci nato è sempre stato, per l’autore (e anche per me), un problema interpretativo. Come scendere a patti con la realtà industriale? Tentare di risalire una scala sociale in cui non si crede, o non farlo? Che cosa significa accontentarsi? Come disinnescare la politica familiare improntata al guadagno che guida tutte le nostre azioni? E soprattutto, come comportarsi con la morte e la desolazione, presenti in ogni angolo di strada e di campo in queste zone, con il lavoro e il desiderio e il bisogno di lavoro, che sembra essere l’unico vero motore inarrestabile della regione. Nello scriverne, Trevisan non cerca di rispondere, ma di rappresentare su uno scenario caro e dilaniato, fatto a brandelli e rimasto su, come reliquia o come monito, il tentativo di sopravvivere alla periferia diffusa di una città di fabbriche e cemento, ma ossessionata dalle ville palladiane, dalla fiera dell’oro, dall’eleganza culturalmente rammendata dei suoi quartieri – mentre la ricchezza dimorerebbe altrove: nei campi e nelle stalle, tra gli ultimi abitanti del paese dove poi si rintanerà a vivere, nella lingua madre scevra da implicazioni, buona per le bestemmie. La provincia veneta, e in particolare quella vicentina, diventano allora il centro ideale per l’azione e l’elucubrazione, fungendo da punto di partenza e di arrivo per tutta la narrativa dello scrittore.


Leggo, con dispiacere, il suo nome tra quello degli autori veneti, categoria da lui rifuggita con motivazioni ben precise legate allo statuto che molti di questi ultimi assumono (tra gli altri, con buona pace delle letture estive scolastiche, Rigoni Stern o Meneghello – non Comisso e Parise, che andrebbero invece riscoperti),[1] rassicuranti e celebrativi, adatti più alle brochure per turisti e alle ricorrenze comunali che al sacro rapporto con chi legge e deve pur pensare qualcosa di quello che sta leggendo, entrarci in qualche modo, farsi modificare. La scrittura di Trevisàn è di una caratura completamente diversa: tutt'altro che conciliante, mette in ordine delle informazioni vissute e interpretate, schematizzandole e costringendoci allo scontro. Chi avrà ragione? La giornalista o il giornalista che dal centro Italia racconta l’incontaminazione dei nostri borghi o quella/o che in Arizona descrive la nostra come la zona più inquinata del paese? Alla letteratura non è dato di rispondere, ma di problematizzare e inscrivere, rendersi utile al cambiamento, non limitandosi alla critica del progresso o alla romanticizzazione dello squallore.

Trevisàn, come ha ben detto Daniele Rielli, che ha avuto anche l’occasione di intervistarlo nel suo podcast (PDR #24), è innanzitutto uno dei grandi. Poi, che sia anche Veneto, e che da questo panorama letterario e culturale sia riuscito a staccarsi, tanto meglio per chi come me ci è nato e non ci si trova, e per cui le pagine diventeranno un alleato non indifferente dai toni più simili a quelli di uno zio illuminato, magari un po’ schivo e infastidito da certi stupidi commenti sentiti a tavola, ma che non si vergogna mai delle sue origini – anzi facendo ben capire che sa «da ‘ndo che la vièn». [2]


Non siamo in presenza di un sociolinguista, ma qualche osservazione puntuale sullo statuto del dialetto veneto e soprattutto sul vicentino (e don’t get me started sulle differenze diatopiche che già separerebbero i suoi usi da quelli della scrivente, pur dividendo i nostri paesi neanche venti minuti di strada), Vitaliano ce la offre, soprattutto in Tristissimi giardini (Laterza, 2010), in cui un capitolo è dedicato proprio alla questione dialettale, richiamando l’importanza del culto della differenza e la diffidenza nei confronti del prodotto artificiale denominato “lingua veneta” ad uso e consumo dei politici, codificato e inferto ai poveretti costretti a subire la violenza mediatica di partiti e garanti della conservazione. Nessuno viene risparmiato dalle accuse, a rimanere feriti sono i cittadini, i parlanti veri di un patrimonio irrisolto, sfruttato ma vivissimo, impossibile da trasporre in letteratura senza farne uno strumento di propaganda o poesia incomprensibile (Zanzotto era un genio, certo, ma chi lo legge?), inadatta a restituire la vitalità di certe espressioni, la gestualità. Trevisan, ancora una volta, non conosce soluzioni e risolve lo vediamo bene, per esempio, in Works, riportando degli scambi in dialetto, delle espressioni quasi formulari, che spiega poi in nota – come non si fa nemmeno più con i prestiti da altre lingue - nella convinzione illusoria, che il lettore condivida lo stesso orizzonte interpretativo dello scrittore, e insomma che sappia.


Le parole, anche in Veneto, e – mi verrebbe da dire – soprattutto in Veneto, sono importantissime. Il «Giometra!» del collega lattoniere, per esempio, con cui Vitaliano è apostrofato al lavoro, è molto più che una qualifica professionale, perché contiene al proprio interno anche un’idea di prestigio sociale, una gerarchizzazione tra chi ne sa e chi non sa, conferendo rispetto, ma anche un po’ di biasimo, a chi è stato così sfortunato da aver dovuto studiare e ora non capisce le cose più ovvie della vita e rimane pur sempre un po’ un rimbambito. Un doppio rifiuto di classe che l’autore stesso lamenta nelle sue pagine, incapace di trovare pace in un’élite culturale priva di senso pratico e in generale di quasi tutto, fatto salvo per l’ipocrisia, ma anche nella classe tradizionalmente operaia, da cui non riesce a farsi accettare.

Alle parole dunque, ma anche alle bestemmie, vanno restituiti un peso specifico e una personalità, come ricorda in Works (Einaudi, 2016) rigorosamente in nota, e con un tono a mio avviso lucidissimo:

«Di questa particolare bestemmia – dio bastardo – M aveva il copyright. Nessuno poteva permettersi di usarla all’infuori di lui per molte miglia tutto intorno; a parte Nino, e anche lui con moderazione. Cose che capitano da queste parti, che uno s’inventi una sua bestemmia. La più curiosa che abbia mai sentito fu un dio sabbioso- che comunque, avendola colta nel bar di un paese noto per le sue cave di sabbia e ghiaia, aveva un senso».

Ecco, sui toni di Vitaliano non servono molte precisazioni: parlano le pagine, anche quelle più riavvolte e oscure, che conservano una chiarezza e una sostanza mirabili. La chiarezza, del resto, è la qualità che più gli sta a cuore e vale molto più della critica sociale che ci aspetteremmo, fine a se stessa.


In alcuni luoghi potremmo affiancarlo agli esiti più felici del postmoderno, sia in termini di strutture narrative sia di stile, dalla ripetizione ossessiva di nomi e luoghi alle costruzioni sintattiche di testi come I quindicimila passi (Einaudi, 2002), con i suoi «a mio fratello e me». Una fascinazione o uno sdoppiamento che, sempre per andare a fare paragoni irreali, mi ha ricordato Visioni di Cody di Jack Kerouac, un altro esempio di “romanzo” in cui la narrazione, che non è ancora racconto ma non è già più monologo, è avvolta ossessivamente intorno a due soggetti cardine stretti da una corda, che però continuano a ruotare, e nel muoversi fanno l’unica cosa possibile: guardano. Due che con occhi attenti e acume descrivono la desolazione di certe stazioni di servizio americane o le strade del nord est vicentino, quasi a dirci – a noi tanto sognatori e malinconici con le pagine e le fotografie degli altri – che non c’è nulla su cui fantasticare. Di fatto, tra colori sbiaditi e colori pastello, corre una bella differenza.


Il bisogno di non fare ordine tra i pensieri è quello che spinge Trevisan a reinterrogarsi più volte su soggetti simili, buttando fuori, nel mondo, i risultati e le conquiste della mente, insieme ai suoi sfoghi, ai suoi segreti. Una cosa però, consapevolmente o meno, lo accomuna davvero a Kerouac, la ricerca e l’indivisibilità dalla legge suprema del ritmo:


"La chiave, io credo, è sempre nel ritmo. Pensare per frammenti e pensare i frammenti, e sempre pensarli in movimento, a tempo. Nella frase che precede, sovrapporre al verbo pensare il verbo scrivere. Così è questo scritto che qui si interrompe. Bruscamente, senza preavviso. Niente di strano: le cose vanno spesso in questo modo, quando arriva la fine".

È stato avvicinato dalla critica uniformemente a Thomas Bernhard, e un po’ potremmo dire che se la sia voluta Trevisan, che tante volte ne ha parlato, ma la sensazione è soprattutto quella di un appiattimento della ricerca attorno a un nome autorevole, infarcendo di tecnicismi e riferimenti colti recensioni che altrimenti sarebbero sembrate scialbe. In fondo, si tratta di un autore cha ha finito per rintanarsi in un paese – un po’ schifato da una certa parte di mondanità, dalla «cultural-politica di provincia», come la chiamava lui – che descrive ossessioni e traumi familiari ambientati su uno scenario a lui familiare ma esotico per il mondo dei lettori. I riferimenti letterari oscurano così l’opera e la mente di un uomo umile, colto e beh sì, anche tormentato, ma soprattutto curioso e analitico, non letto e apprezzato come avrebbe meritato forse proprio nelle sue zone, per le verità scomode e lo sgomento che uno prova quando, cresciuto tra le fabbriche che nomina, ne vede più precisamente i contorni.


Personalmente, il mio orizzonte di esplorazione, almeno fino ai 14 anni, è stata la parte di provincia industriale che secondo l’autore è «una delle più desolanti», in prossimità della quale si sentiva preso appunto da «desolazione e angoscia», per passare poi al centro di quella città (Vicenza) che è per lui un triste «palcoscenico provinciale». Naturalmente aveva ragione – e lo scandalo dei PFAS non era ancora del tutto venuto a galla mentre scriveva che in certi posti «non ci importa nulla dell’aria che respiriamo: respiriamo e questo è quanto».


C’è già ne I quindicimila passi, come nell’opera successiva, l’attenzione allo sfruttamento intensivo dello spazio, alla distruzione di boschi e canali, a quelle insopportabili «vie dell’artigianato e vie del progresso» che riscrivono la geografia urbana dei nostri paesi, «ammesso che di paesi si possa ancora parlare» – come dice a Daniele Rielli – rendendola inabitabile al di là dei confini dell'orari di lavoro. Distruzione del dopolavoro, in Works, Nord-Est che si autodigerisce in Tristissimi giardini, se la prendono invece con l'urban sprawl e l'industrializzazione portata all’estremo, dati alla mano, con l'hybris infinita di chi nel «lavorare con i secondi!» [3] vuole essere sempre il primo. Ma è soprattutto una una storia di soldi, quella del capolavoro Works, di etica del lavoro, di abnegazione e disillusione, mancante della militanza politica che ci aspetteremmo canonicamente da un’opera sul lavoro e sui lavori di una vita, di più di 600 pagine, di un autore contemporaneo.


Da dentro le nostre «città senza cuore», [4] dobbiamo ancora fare i conti con uno scrittore e un osservatore tra i più intelligenti che possiamo vantare. Non è semplice, sono d’accordo, e comporta la perdita di alcune fondamentali illusioni sul nostro paese e sul nostro modo di vivere, sulla nostra consapevolezza del progresso. Trevisan non rigetta la spinta in avanti, la accoglie e la lascia rimbalzare su di sé cercando di modellarla, anche se sa che è impossibile riuscirci da soli: è un lavoro troppo grande per un artista, che può solo mettere il suo realismo al servizio del vivere. Se un pezzo di storia tocca a tutti noi, un altro dobbiamo pretenderlo dalle istituzioni.


Leggere un autore così può aiutarci a sfatare i nostri miti autoimposti, a raccontare altre storie, a stancarci della critica più sterile, della satira e della malinconia – che sono tutte figlie, più o meno consapevolmente, del populismo. Per chi vuole iniziare, Works e poi a ritroso.



INTERPOLAZIONE

Una precisazione necessaria e antipatica, prima di continuare, qualora voleste (come spero) parlare di lui: Trevisàn o Trèvisan? Lo ho sentito pronunciare così anche io da persone del settore, e mi sono sentita cretina a chiamarlo con l’accento sull’ultima, come chiamo gli amici che quel cognome lo portano e nemmeno sono tra di loro parenti (è parecchio diffuso dalle nostre parti). La smania, anche questa veneta, di fare le cose bene, mi induce a mettere in discussione un patrimonio linguistico con cui sono nata. E invece no: Trevisan si dice Trevisàn – ho controllato nelle interviste, nelle sue pagine, parlando con mio nonno.



[1] Vitalino Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, Bari, 2010, p. 301 (Apple Books).

[2] Espressione utilizzata anche in uno dei suoi capolavori, Works, memoir uscito nel 2016 di cui avremo modo di parlare, ma utilizzata anche nei litigi tra me e i miei parenti, nei litigi tra di loro e i loro parenti, volta a richiamare l’attenzione sull’importanza della fatica e del duro lavoro e invito a non dare nulla per scontato, a non essere capricciosi. Imparare da dove viene quello che hai, in sostanza, dal sudore e dalla rinuncia. Utilizzata anche come minaccia di invio al lavoro manuale, in caso di richiesta di oggetti costosi e spesso francamente superflui. A malincuore intraducibile.

[3] Ci si riferisce ad un episodio ricorrente nella sua narrazione, relativo a uno dei numerosi lavori manuali svolti dallo scrittore prima del suo esordio, in cui, trovato inoperoso da un vecchio industriale, è da questi rimproverato.

[4] Vittorio Sereni, Intervista a un suicida, in Gli strumenti umani, Einaudi, Torino, 1965.


Nello scrivere, ho fatto riferimento principalmente alle seguenti opere di Trevisan:


Vitalino Trevisan, I quindicimila passi. Un resoconto, Einaudi, Torino, 2002.

Id., Il ponte. Un crollo, Einaudi, Torino, 2007.

Id., Tristissimi giardini, Laterza, Bari, 2010.

Id., Works, Einaudi, Torino, 2016.


Per farsi un'idea su Trevisan:


Morena De Bortoli, Romanzo, dramma, sceneggiatura: le oscillazioni di Vitaliano Trevisan, Studi Novecenteschi, luglio · dicembre 2006, Vol. 33, No. 72, Accademia Editoriale, Pisa-Roma, pp. 297-304.

Saveria Chemotti, Spazio familiare. La terra in tasca ai veneti per il mondo, Studi Novecenteschi , luglio · dicembre 2005, Vol. 32, No. 70 (luglio · dicembre 2005), Accademia Editoriale, Pisa-Roma, pp. 69-91.

Filippo Reina, Una luce che non dà requie: per Vitaliano Trevisan, «La Balena Bianca», 23 febbraio 2022.

Gian Mario Villalta, 12 dicembre 1960 – 7 gennaio 2022 / Vitaliano Trevisan, alle estreme conseguenze, «Doppiozero», 10 gennaio 2022.


Infine, una piccola precisazione: il contributo non vuole essere in nessun modo una critica esaustiva all’opera di Trevisan, che è stato anche un'importante drammaturgo e attore. E altre centinaia di cose, naturalmente, sospese tra l’essere e il fare.


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