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Un po’ di serie Netflix, consigliate

Quattro serie Netflix molto belle, consigliate dalla redazione.



Di Anastasia Shuraeva da Pexels


Matt e Ross Duffer


Sarà che è appena uscita la quarta stagione o che quando vediamo i personaggi crescere insieme a noi un po’ ci emozioniamo sempre, sta di fatto che non consigliarla sarebbe un grosso sbaglio. Stranger Things è una serie interessantissima, che si riappropria dei moduli della science fiction e li sorregge con una scrittura e un’interpretazione di alto livello, che la rendono adatta al binge- watching pressoché universale. Musiche e atmosfere surreali e inquietanti si alternano a scene di interni divertenti e affettuose, portando lo spettatore all’interno delle vicende come poche serie riescono a fare senza cadere in banalità o concedere qualcosa ai clichè. Guardare Stranger Things è come vedere un film al cinema anche se si sta in cameretta o sul treno. Consigliatissima per le maratone - Valentina Farinon.


Joe Penhall e David Fincher


Se avete mai ascoltato Falling Off the Edge of the World dei Black Sabbath, ricorderete l’inizio soffuso del brano, il suono sottile che aumenta di tono all’improvviso. Ecco, il rimbalzo musicale di questo pezzo è molto simile alla struttura di una bella serie tv targata Netflix: Mindhunter. Qui l’inizio è lento e temporeggiato, come in Planet Caravan, sempre dei Black Sabbath, ma a un certo punto il ritmo narrativo si fa più denso, più esasperato e non solo perché c’è lo zampino di David Fincher. Mindhunter non è una semplice serie sui ‘serial killer’, o su un’équipe, selezionata all’interno dell’FBI a Quantico, che si occupa di studiarne il comportamento, le ossessioni. No, il prodotto di Fincher é pragmatico, riflessivo, meticoloso e soprattutto crudo, non solo per l’autenticità storica ogni episodio inquadra un serial killer vissuto tra gli anni Sessanta e Settanta ma anche per lo spessore dato alla definizione di killer ‘seriale’ e all’impalcatura psicologica su cui poggiano il narcisismo, la masturbazione, la sessualità. E proprio questi temi, incastrati nelle indagini e nelle interviste, fanno trasparire l’ambiguità dei contatti tra chi investiga e chi viene ‘studiato’. Da un lato si tenta di scavare con rigore scientifico nelle storie e negli impulsi sessuali degli assassini, scavalcando la diffidenza e le semplificazioni sociali; dall’altro si crea un cortocircuito di quegli impulsi anche in chi investiga e ascolta. Il risultato è una mappa umana e politica fatta di svincoli e linee che si sovrappongono e si confondono tra un ‘noi’ e un ‘loro’ - Giorgia Zoino.


Fanny Herrero


Una serie francese sulla difficoltà e l’assurdità del mondo patinato dello spettacolo visto dagli occhi degli agenti dietro le pile di contratti e copioni; un taglio ironico che ci porta dritti dagli appartamenti dei sobborghi alle ville in campagna fino alla cerimonia dei César. Con intelligenza e la giusta dose, ponderatissima, di sarcasmo, attori e attrici tra i più iconici del cinema francese (ma anche qualche italiano e statunitense) giocano a interpretare se stessi, reinventandosi e dando spazio a tratti del proprio carattere diversi da quelli ammirati dai fan. Quattro stagioni, di cui una fa i conti ahimè con la pandemia, per vedersi ventiquattro episodi di storia del cinema contemporaneo. Si dice che l’Italia sia tra i paesi che sta lavorando a un remake, ma non promette bene. Intanto, la serie ideata da Fanny Herrero è disponibile comodamente su Netflix, e sì, ci sono sia i sottotitoli che l’audio in italiano - Valentina Farinon.


Ricky Gervais


Uno Ricky Gervais (il più gran comico vivente, non serve argomentare oltre) se lo ricorda mentre prende in giro mezza Hollywood bevendosi una pinta di lager, o per gli spettacoli di stand up comedy, o per quella meraviglia che è The Office. E basterebbe: per essere dei “geni” è abbastanza produrre almeno una cosa che faccia morire d’invidia il resto della specie. E Gervais ne ha fatte tre: The Office, Supernature e una serie ineffabile di video-interviste un po’ alticcio durante il lockdown. Ma dato che gli avanzavano ancora un po’ di talento e un mucchio di buone idee, nel 2019 ha iniziato a girare, produrre e recitare una serie, After Life, che ha dato agli ammiratori una quarta ragione per ricordarlo (e agli unhappy few che ancora non lo conoscono un motivo in più per iniziare ad ammirarlo). Ora, la sinossi è questa: un tizio perde la moglie a causa di un cancro, cade in depressione e inizia a pensare ossessivamente al suicidio, solo che anziché ammazzarsi subito, decide di passare il resto del tempo a fare lo stronzo, dato che non ha più nulla da perdere e poi per togliersi la vita, se diventa insopportabile, c’è sempre tempo. Immaginate cosa avrebbe fatto la maggior parte dei registi con questa roba: immaginate l’autocommiserazione, il vittimismo onanista, la retorica del trauma-che-cambia-la-vita, i rant da buonisti in trance agonistica. Niente di tutto questo, per fortuna. Certo, l’idea che sopravvivere al dolore significhi restare in giro e cavarsela come si può e che la gentilezza aiuti molto, moltissimo è il basso continuo del film; ma non c’è la retorica, non ci sono i pistolotti, non c'è soprattutto quell’idea di fare un film su qualcosa (sapete quando i registi dicono di voler fare un film sull’amicizia, o sull’importanza dell’amore, del perdono, eccetera? Ecco, a quando una moratoria?). Poi può darsi che per sapere scrivere e girare una bella serie TV serva anche affezionarsi un po’ ai personaggi secondari, non solo a quello che occupa il grosso della scena con il suo Io. E l’affetto di Gervais per i personaggi che popolano After Life è evidente: i dialoghi tra Tony e Anne, per esempio, sono una della cose più belle (e vere) della serie; ma bellissima è anche la fragilità un po’ squallida di Brian, l’ostinazione appiccicosa di Matt. E bellissima è la serie, tutta la serie. Che invidia Ricky Gervais - Enrico Zappatore.

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