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Un po' di film su Mubi, consigliati

Quattro film su Mubi, consigliati dalla redazione.

Da Trois Couleurs: Rouge di Krzysztof Kieślowski via Mubi


Thomas Vinterberg


Spesso si pensa che Mubi sia la piattaforma a cui abbonarsi per vedere o rivedere un mucchio di grandi classici, ma è vero solo in parte. Un po’ perché – come per la musica –non é vero che tutto ciò che di buono c'è da vedere è stato girato prima del 1980, e un po’ perché la cineteca di Mubi, cito dal sito, «è ricca di film visionari che non farebbero il pienone neanche in un singolo cinema belga per una settimana, nemmeno per una giornata». E insomma non è tanto per rivedere dei vecchi bellissimi film che ci si abbona, ma per capire quali tra i nuovi sono stati girati e sceneggiati come si deve, per imparare quali sono i registi e gli sceneggiatori da tenere d’occhio. Per esempio, sfogliando il catalogo – non si è mai grati abbastanza per la pochissima profilazione (che è quasi sempre inutile, se non scema) – mi è capitato di trovare l'ultimo film di Thomas Vinteberg, Un Altro Giro (2020). Si tratta di una riuscitissima commedia (una di quelle che piace la prima volta e incanta la seconda) che sta comodamente sotto la soglia psicologica delle due ore e che racconta un pezzettino della classe media danese – sarebbe meglio dire un sorso, dato che il rapporto tra i danesi e l'alcol ha una certa importanza. Poche righe per la trama. Quattro professori liceali un po’ depressi – per le vite monotone e la sensazione di aver perso il tocco con gli studenti – decidono di sperimentare la teoria di uno strampalato psichiatra, secondo il quale l'essere umano soffre di un deficit alcolico cronico. Insomma si ubriacano, bevendo regolarmente quantità crescenti di alcol e osservando i risultati. Ma i risultati variano, e a seconda del carattere, delle scelte individuali o dei rapporti stretti la teoria diventa salvifica o semplicemente scema. Vinteberg decide di tessere una sceneggiatura che si prende una grande libertà di variare sul tema: ribalta i ruoli, alterna gli stati d'animo, gioca con l'entusiasmo e la disperazione dei protagonisti, e insomma non si stanca mai di sfumare le caratterizzazioni dei personaggi. Il risultato finale, anche grazie all’aiuto di un bravissimo Mads Mikkelsen, è una commedia senza le insopportabili pretese di universalità che alcuni registi finiscono per arrogarsi, soprattutto quando si sforzano di rappresentare il Borghese - Alessandro Bongiolo.


Agnès Varda


Una foto scattata nel 1954 da Agnès Varda ritrae una capra, un bambino e un uomo nudo in riva al mare. La capra – morta – è in posizione diametralmente opposta all’uomo in piedi sul lato sinistro, mentre il bambino è Ulisse. Proprio con quest’immagine congelata sulla spiaggia di Calais si apre Ulysses, cortometraggio-saggio del 1982 di Varda, attraverso il quale la regista francese tenta di dare una definizione all’autenticità della fotografia e dei suoi rovesciamenti percettivi tra chi fotografa e chi racconta a distanza di tempo. Il vero soggetto di questo scatto infatti non è il bambino accovacciato, o la capra riversa sulla spiaggia, o l’uomo nudo che parla attraverso i ricordi: è il tempo che si sviluppa attraverso un blocco di immagini ferme, che vanno a costituire degli ulteriori supporti fisici alla narrazione. La bellezza di Ulysses non si ferma però alla ricerca di un senso storico e all’analisi particolare degli elementi che costituiscono la foto del ’54; il cortometraggio arriva fino a definire il concetto di cinescrittura attraverso l’incontro dialettico tra immagine e linguaggio – modus operandi che si trova anche in Une minute pour une image di Varda, documentario dello stesso anno. Questo rapporto tra fotografia e discorsivizzazione dà vita a nuove immagini mentali che creano un confronto continuo tra reale, ricordo e immaginario. L’intervento della voce narrante e i riferimenti culturali servono infatti a colmare i vuoti di memoria che la fotografia da sola non può risolvere. Per questo motivo la narrazione della regista è retta dall’esigenza di ricostruire una qualche verità che la memoria nega e la ruminazione altera; per cui ci si affida a quel supporto fisico che apre in maniera sorprendente un ponte tra passato e presente e tra presente e passato - Giorgia Zoino.


Michelangelo Antonioni


Di Antonioni è difficilissimo scrivere perché se ne scrive sempre allo stesso modo: l’alienazione, l’incomunicabilità, il linguaggio difficile, l’incoerenza narrativa. Non che queste cose non abbiano peso nei film di Antonioni, solo che non mi sembrano le ragioni per cui Antonioni va visto (e rivisto, e rivisto). Prendiamo La notte: certo che Lidia e Giovanni non riescono più a comunicare tra loro (ma con nessuno); certo che l’alienazione di Lidia è evidentissima (quando è sola mentre gira per una Milano che le è ostile e amica; quando se ne vanno al party di Gherardini o al Night); certo che Giovanni rappresenta un mondo culturale esanime, autoreferenziale, privo di ispirazioni e prospettive, incapace di interessare se non chi ambisce ad essere á la page. Ma francamente se La notte si basasse principalmente sul problema dell’incomunicabilità, dell’alienazione, sarebbe solo l’ennesima variazione sul tema, un esercizio più o meno ozioso fra tantissimi altri (su tutti, i peggiori film di Pasolini). Invece a contare sono soprattutto l’ambiente e una temperatura che la regia di Antonioni e la sceneggiatura di Ennio Flaiano e Tonino Guerra cercano di catturare e fissare sullo schermo, nei dialoghi – l’alienazione e l’incomunicabilità, in questo senso, sono dei trucchi, dei mezzi utili alla rappresentazione. Per questo il film funziona come una serie di cortometraggi cuciti assieme, compiuti in sé ma del tutto coerenti anche visti in successione, come piccole sequenze narrative. Più o meno di seguito si vede: una Milano che mostra due facce, come la città di Mon Oncle (quella iper-moderna dei salotti letterari e del grattacielo Pirelli e quella fatiscente della periferia San Giovanni, piena di falansteri, costruzioni cementizie e demolizioni in corso); un’unanimità concitata (risse di strada e tentativi di stupro, razzi, conciliaboli di fronte ai locali); un’interminabile serie di rumori (l’elicottero, gli aerei, l’ambulanza, i fuochi d’artificio) che intervengono dall’esterno per tenere Lidia nel mondo (come in quella frase di Kafka: «è inutile chiudersi in casa: si è nella loro»); gli sguardi umidicci degli uomini, che Lidia fugge sempre, ma che è la prima a cercare con ostinazione; e poi la festa, soprattutto la festa, con il diluvio in piscina, gli ambienti interni, le avances e le carezze. Scegliete voi di che ambiente, di che temperatura si tratta (con coscienza, perché non è affatto vero che nei film, nei libri o in qualsiasi altra opera uno ci può vedere quello che vuole: ci sono le intenzioni di chi ha scritto e diretto, e sono importanti). Io ho solo una preghiera: dimenticatevi dei cliché che ha inanellato una certa critica accademica: non è per quello che si guarda Antonioni - Enrico Zappatore.


Éléonore Weber


In Il n’y aura plus de nuit Éléonore Weber raccoglie numerosi video girati dai corpi francesi e americani su territori di guerra, ma anche di controllo e presidio, in zone sensibili come Afghanistan, Iraq e Pakistan, sovrapponendovi interviste e testimonianze ai soldati e ai generali al fronte. Le voci ci arrivano lontane, intervallate dalle registrazioni dei comandi dei superiori, e si lasciano andare a considerazioni sulla vita militare, osservazioni sulle popolazioni con le quali vengono in contatto non come esseri umani ma come occhi e armi soltanto. Uno spaccato visivo e sonoro, crudo e autentico delle ossessioni e le storture che coinvolgono i militari, che li nutrono negli anni di servizio, ma che rimangono anche dopo, una volta tornati. La regista offre una riflessione senza spiegazione, senza il canonico commento: sullo schermo c’è la vita, come la vedono i soldati. Un docu-film forte, per impatto e la mancanza di voce unificante, pur nella sua brevità – neanche un’ora e mezza - Valentina Farinon.


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