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Un po' di concept album, consigliati

Quattro concept album molto belli, consigliati dalla redazione.

di Matthias Groeneveld da Pexels


Caparezza


L’ultimo album di Caparezza suona come un rito di passaggio, e si apre con la raschiatura dei precedenti. L'operazione è un po’ violenta e mette in discussione molto del passato di Caparezza – forse il secondo album non era poi tanto difficile: i tempi dell’appartenenza lunare sono lontani e le vecchie chiavi non si sono rivelate dei passepartout. Ma la soluzione che trova Caparezza è un’abiura, non una rivoluzione, e consiste nel prendere le giuste distanze per guardare il risultato dello scorrere del tempo e della propria vita artistica. Il risultato è un’esuvia: una collezione di testimonianze delle proprie forme larvate, del sentiero percorso e degli accidenti che la vita gli ha riservato. Un percorso che – come accade spesso – si riempie di personificazioni e metafore: Cronos, La Certa, Beethoven e Pripyat. E la successione di questi passaggi liminari lascia la sensazione di aver fatto un giro lunghissimo tra i generi che Caparezza sfrutta per informare una narrazione lunatica e praticissima, come piace a lui - Alessandro Bongiolo.


The Beatles


La necessità di riattualizzare la leggerezza e il piacere di raccontare una storia dei Beatles pare più che mai urgente. Direttamente dal 1967, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band è una collezione di 13 cartoline di Liverpool ma soprattutto delle sue strade, la sua gente e il suono di un coro che si riempie lentamente di voci e chiede di essere ascoltato a una platea immaginaria. I cuori solitari del “Sergente Pepe” ci parlano ancora oggi senza criticare niente, semplicemente riempiendo lo spazio di sonorità che a prima vista classificheremmo come rock, ma al secondo, terzo o quarto a dieci anni o cinquanta dal primo, riconosciamo essere ben più ricche: opera, atmosfere circensi, ballad, melodie anni venti. Insomma, uno spettacolo completo. Al suo interno pezzi famosissimi come With A Little Help From My Friends e Lucy In The Sky With Diamonds, ma anche chicche per emozionarsi nel silenzio di queste notti estive - Valentina Farinon.


Bob Dylan


Uno, ascoltando i primi dischi di Dylan, impara che a sua Bobbità piacciono quelli che tengono duro, che resistono ai tempi, al potere, che non si lasciano corrompere dai soldi, dalle occasioni. Poi apre Blood On The Tracks e ascolta Tangled up in Blue, e capisce che non c’è niente da capire. Sarà il modo in cui Dylan spezza i tempi narrativi, saltando da un ricordo all’altro senza alcuna coerenza; sarà il continuo frugare nella memoria, nel tentativo di recuperare, ricreare e scongiurare qualcosa che assomigli a una storia, alla propria storia; sarà che fin dalla prima strofa i punti di vista si alternano, si sovrappongono, e finzione e autobiografia si mescolano fino a confondersi (al punto che non si è mai davvero sicuri che il tizio che dice io sia Dylan); sarà che, se anche si ascoltano tutte le altre canzoni dell’album, le cose non diventano più chiare. O magari saranno tutte queste cose insieme, ma di certo Blood On The Tracks restituisce esattamente l’impronta che Dylan voleva lasciare di sé stesso (non delle sue aspirazioni, delle sue idiosincrasie o della sua Weltanschauung): due o tre centimetri di profondità in più e sarebbe stato troppo riconoscibile; due o tre centimetri in meno e la storia non avrebbe avuto la stessa intensità. Ora, come molti altri album di Dylan, Blood On The Tracks non segue una precisa coerenza semantica, ma inanella una serie di enunciati dal peso specifico enorme, ai quali solo la forza agogica della musica restituisce un senso, stabilendo vincoli e nessi tra frasi che altrimenti non ne hanno alcuno. Capita però che all’inizio ci sia quell’unica strofa, quell’unica frase capace di orientare l’ascolto di tutto l’album (magari anche illudendo che quello sia l’unico ascolto possibile). Nel caso di Blood On The Tracks sono gli ultimi versi di Tangled Up in Blue: «All the people we used to know/ They’re an illusion to me now/ Some are mathematicians/ Some are carpenters’ wives/ Don’t know how it all got started/ I don’t know what they’re doin’ with their lives/ But me, I’m still on the road/ Headin’ for another joint/ We always did feel the same/ We just saw it from a different point of view/ Tangled up in blue». Vivere davvero, sembra dire sua Bobbità, significa vivere alla macchia, costruendosi una serie di isole fatte di frammenti, di sguardi, di rimozioni. In questo senso, ogni volta che in Blood On The Tracks dice io – qualunque sia il suo paesaggio interiore – Dylan diventa appunto il portavoce della possibilità di scegliersi, di reinventarsi giocando con questi frammenti - Enrico Zappatore.


Crimson King


Il 1969 è stato un anno di grandi cambiamenti culturali, sociali e politici: dall’ultimo episodio di Star Trek all’uomo che sbarca sulla luna, dal concerto di Woodstock alla guerra in Vietnam. Un’ondata di cambiamenti che stava preparando il terreno agli anni ‘70 e a una nuova fase di rinnovamento intellettuale, oltre alle incertezze e alle ansie di una nuova società fatta di valori opposti. «I’m on the outside looking inside, what do I see much confusion, disillusion all around me», cantavano i King Crimson nell’album In the Court of the Crimson King. E proprio questo concept album, del 1969, racconta in piccole dosi surreali e visionarie l’uomo – schizoide – del XXI secolo in tutta la sua fragilità e instabilità, rese perfettamente anche dalla cover firmata da Barry Godber. L’immagine è quella di un uomo dagli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un urlo che enfatizza ancora di più il primo brano del disco – 21th Century Schizoid Man – fatto di distorsioni vocaliche e un riff denso e magmatico, pieno di improvvisi cambi di tono e di stile. Un dinamismo di suoni e generi – dal jazz alla musica classica, fino al rock – che serve a modulare non solo ‘i nuovi orizzonti’, ma anche i cambi d’umore, gli effetti collaterali, la depressione, la schizofrenia, tutto in un flow che rimbalza da un tono grave a uno più lento e dimesso – come in Epitaph – fino ai giri di flauto dell’ultimo brano, The Court of the Crimson King - Giorgia Zoino.


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