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Un po' di anime, consigliati

Tre anime molto belli, consigliati.

di Danny Choo da Flickr


Gen Urobuchi


Diciamo che il Male, anche quando siamo noi a compierlo, è per lo più una cosa che subiamo (in realtà no, è un po’ più complicato di così, ma procediamo per assiomi, come quei deliranti manuali di filosofia morale). Diciamo che è per questa ragione che il cristianesimo, per esempio, tende a distinguere tra peccato e peccatore, tra l’errore e chi lo commette – mentre in gran parte le nostre società tendono a non distinguere, come pure si dovrebbe fare, tra il crimine e il suo autore. E diciamo che sempre per questa ragione, leggendo i brevi racconti di vita che Amedeo Savoia raccoglie in Se li guardi, più che biasimare o condannare, uno capisce, empatizza, si immagina al loro posto: perché l’impressione è che a nessuna di queste vite sia stata davvero concessa una possibilità. Ecco, credo che da qui, da questa semplicissima constatazione, nasca Psycho-pass. Che da qui, per farla breve, sia partito Gen Urobuchi per immaginare una società chiusa e distopica in cui è possibile monitorare lo stato mentale e le inclinazioni degli individui, arrestando preventivamente un mucchio di gente il cui “coefficiente di criminalità” supera un preciso limite. Il problema è che il criterio usato per misurare questo “coefficiente” sembra essere la distanza rispetto a un profilo psicologico ritenuto accettabile per la convivenza sociale (insomma si misura il modo in cui lo stress altera i movimenti della psiche), e cioè un criterio che funziona appunto finché si riesce a dimostrare che l’origine del male patito e inflitto sia quel momento preciso in cui qualcosa di guasta in maniera irrimediabile (che so, quando te la fai ancora addosso e i tuoi genitori non te la perdonano). Ma cosa succede quando il Male viene scelto consapevolmente? Cosa succede quando si incontra la versione giapponese di Don Giovanni (di nuovo, più o meno)? - Enrico Zappatore.


Hajime Isayama


Succede, a volte, che le nostre aspettative a proposito di certe linee narrativi siano disattese da eventi spaventosi, che aprono a nuove possibilità, a sviluppi potenzialmente entusiasmanti. Prendete un gruppo di ragazzi a cavallo, con stivaloni di cuoio e lunghe spade nei foderi. Uno si aspetta una battuta di caccia, la spedizione di un gruppo di conquistatori o magari, che so, un revival della battaglia di Gettysburg. Invece si tenderebbe a escludere un’imminente battaglia contro un gigante colossale che finirà in carneficina. Già, perché ormai ci siamo abituati a una certa gerarchia delle minacce: e in questa gerarchia l’uomo è il Moloch più temuto. Con AOT Isayama sfrutta il dark-fantasy per sovvertire quest’ordine delle cose, mostrando un’umanità braccata da branchi di giganti dalle sembianze umanoidi, che cacciano e dilaniano voracemente chiunque gli capiti a tiro. Da questi presupposti parte una narrazione davvero incalzante, che coinvolge un folto gruppo di personaggi a cui è davvero facilissimo affezionarsi, anche grazie a una caratterizzazione che evolve mano a mano che la trama si sviluppa, perfettamente nei canoni dello shonen. Altrettanto riuscita è l’ambientazione: un insieme di cittadine dai tratti aspri, germanici, rinchiuse in tre ordini di mura concentriche che trasmettono un senso di minaccia e accerchiamento costanti – un senso che poi è il basso continuo dell’anime. - Alessandro Bongiolo.


Ai Yazawa


Nana di Ai Yazawa non è un manga qualsiasi, né la trama si apre e si chiude banalmente su due ragazze – Nana Osaki e Nana Komatsu – che si incontrano su un treno per Tokyo. Stiamo parlando di uno dei manga più belli nel genere josei (young adult al femminile), e la serie animata – 47 episodi che riadattano un’opera di vent’anni fa – non è meno riuscita. C’è da dire che anche Ai Yazawa non è una qualunque mangaka, anzi è piuttosto facile paragonarla ad alcune scrittrici giapponesi – come Banana Yoshimoto e Mieki Kawakami – per la capacità che ha di tirare fuori dai suoi personaggi e dai disegni le incertezze e le ansie di chi sta diventando adulto e sa che le scelte da prendere corrono il rischio di essere definitive. in Nana questo lavoro è fatto con grande naturalezza e semplicità, senza tragedie che falsificano paure o dubbi – il tutto con uno stile così crudo e marcatamente realistico che pare quasi un esorcismo per drammi alla shōjo. E infatti una delle prime differenze tra Nana e la gran parte dei manga destinati a un pubblico femminile, che di solito brulicano di stereotipi di genere nipponici, è che Nana restituisce ai suoi spettatori quegli stessi stereotipi snaturandoli attraverso due figure femminili agli antipodi e, allo stesso tempo, complementari. Insomma, la serie di Yazawa va inserita nella propria lista Netflix - Giorgia Zoino.


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