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Texas, non Tex

Chi vuole demistificare il Texas?


Provare a immaginare gli Stati Uniti è maledettamente difficile: dietro l’angolo c’è sempre il rischio di inciampare in una serie di bias, vicoli ciechi e aberrazioni cognitive che dipendono in gran parte della rappresentazione edulcorata che gli USA offrono di sé stessi, della propria storia e delle proprie aspirazioni. Un po’ perché ne va delle sorti di Hollywood (e ci mancherebbe: chi vuole demistificare Hollywood?) e un po’ perché, con il tempo, a certe proiezioni culturali si finisce per credere elevandole a status identitario.


Prendiamo il Texas come esempio di quanto si è detto, solo nominandolo vengono in mente una serie di immagini cinematografiche stereotipate, dalle pattuglie di rangers impomatati che danno la caccia a bande di fuorilegge latinos, al machismo tutto sigari-e-sguardi-maschi di Clint Eastwood e John Wayne. Insomma, quel retaggio da "Lone Star State” che ancora si porta dietro e che proprio non riesce – o non vuole – scrollarsi di dosso.


Un discorso del tutto simile si potrebbe fare a proposito di un’altra manifestazione stereotipata dell’identità texana: patria di ricchi petrolieri bianchi che votano e finanziano con fiumi di denaro i repubblicani, ormai da decenni, quasi fosse un’inossidabile tradizione. Ora, nessuno vuole negare l’evidenza: una qualsiasi mappa elettorale delle ultime elezioni presidenziali si colorerebbe di rosso – un po’ come gli interni della Chevelle Malibu del 1964 da una certa scena in poi di Pulp Fiction. I repubblicani nel 2020 hanno fatto propri tutti gli electoral vote (38), vincendo agevolmente il voto popolare con un parziale di 52% a 46% contro i democratici. Dove sta dunque la fallacia interpretativa? Principalmente in due aspetti, legati l’uno all’altro. In primo luogo, rispetto alle precedenti presidenziali (quelle del 2016) i democratici hanno guadagnato il 3,24%, un risultato che è in linea con una certa tendenza elettorale – nel 2020 i democratici hanno registrato il loro miglior risultato in Texas dal 1996. A spingere le speranze blu ci sono la crescente partecipazione elettorale (66%, risultato record) e l’andamento demografico dello stato. La popolazione texana è infatti in rapida ascesa e i demografi stimano che la crescita demografica porterà la popolazione a raddoppiare entro il 2050. Ciò significa 54,4 milioni di abitanti per lo più non bianchi, dal momento che il 95% della crescita demografica è alimentata da ispanici, neri e asiatici. Quindi, se i democratici riusciranno a confermare il voto dei “latinos”, il Texas dei repubblicani di ferro potrebbe trasformarsi, se non in un lontano ricordo.


Ma si può anche scavare più a fondo. Studiando un po’ la storia dello stato si capisce che l’idea inossidabile che il Texas sia un’appendice culturale del Farwest è ampiamente infondata e, con ogni probabilità, da attribuire a quel periodo che va dalla Reconstruction post secessionista alla costruzione del mito dello stato "where the West begins" – per altro, entrambi momenti funzionali a eradicare la nuova frontiera del politicamente scorretto: lo schiavismo. Poi ci si è messa pure Hollywood, che negli anni Cinquanta ha deciso di convertire immense distese di cotone in praterie per un’attività che nobilitasse l’immagine della cultura texana: la caccia al “pelle rosa” (Ombre Rosse e Sentieri Selvaggi sono solo due esempi). Una scelta che, col senno di poi, si potrebbe eufemisticamente definire poco felice.


Volendo srotolare fino in fondo questo gomitolo di autorappresentazioni, retoriche e narrazioni socio-culturali, si potrebbe anche iniziare a mettere in discussione la presunta attualità del modello economico “oil & ranch”. Di fatto, pur essendo per molti versi il simbolo più riconoscibile dell’amministrazione Johnson, questo modello ormai è solamente uno degli ingranaggi di un’economia moderna e ben collaudata, un’economia che già a partire dalla fine degli anni Sessanta iniziava ad aprirsi alla terziarizzazione. L’esempio più illuminante, in questo senso, è il Lyndon B. Johnson Space Center, ossia il centro di controllo spaziale della NASA, che proprio negli anni Sessanta è servito da catalizzatore di un’economia che è stata poi capace di ritagliarsi un ruolo importante sulla frontiera dell’high tech.


Questa caratteristica, unitamente a una delle tassazioni più basse del paese, rappresenta un’attrazione per i colossi tecnologici che stanno via via abbandonando l’ormai invivibile California – in cui invece la pressione fiscale si fa sempre più opprimente. Ma non è la sola: molte aziende sono anche attratte, per esempio, dal costo davvero bassi degli immobili (soprattutto nei sobborghi delle principali città texane), e trasferendosi contribuiscono a quel processo di gentrificazione che sta lentamente rodendo l’anima più conservatrice dello stato. In più, dalle città universitarie come Austin si diffonde uno spirito libertario e hipster che caratterizza una certa frangia liberal e che sta preoccupando lo zoccolo duro repubblicano, tanto da spingerlo a lamentare una presunta “Californication”.


Tutti questi cambiamenti, tutti insieme, hanno scatenato una reazione anti-liberal che ha forse raggiunto il suo picco in concomitanza con l’amministrazione Trump e il governatorato di Greg Abbot e del suo luogotenente Dan Patrick. Lo scorso ottobre il Senato texano ha approvato una legge che restringe sensibilmente le possibilità di abortire nello stato, la cosiddetta “Senate Bill n°8”; una legge che è riuscita a peggiorare un quadro sanitario già piuttosto critico. Il Texas infatti non si preoccupa abbastanza di tutelare la salute pubblica, come dimostra anche il mancato aumento di fondi statali nel periodo successivo all’approvazione dell’Affordable Care Act – cioè “l’Obamacare”. Il che significa, per arrivare al punto, che il 18,4% della popolazione non è coperto da un’assicurazione sanitaria. Un dato che si conferma – e purtroppo peggiora – considerando i soli minori (1 su 5).


Ma non basta: il problema della tutela pubblica dei diritti dei minori è ormai entrato stabilmente nelle cronache e, soprattutto, nelle corti di giustizia, nelle quali dal 2011 è in corso una lunga serie di indagini sulle condizioni di migliaia di minori che hanno riportato segni di violenze e abusi dopo essere entrati nel sistema di affidamento statale. E il nocciolo della questione è che ad oggi, e cioè a 11 anni di distanza dalla class-action che per prima denunciò la gravità della situazione, l’intervento dell’amministrazione statale non è stato sufficiente ad assicurare gli standard minimi sollecitati dalle numerose sentenze del giudice distrettuale Janis Graham Jack. «Sono davvero sconcertata dall’inadempienza dello stato» ha commentato Jack dopo le udienze svoltesi nel settembre del 2020, che a loro volta hanno fatto seguito a un report prodotto da un ispettorato del tribunale sulle condizioni dei minori in attesa di affidamento durante la pandemia. Report da cui risultava, da una parte, che i bambini ospitati nelle strutture statali contraevano il virus molto più facilmente dei coetanei (circa il doppio della probabilità) e, dall’altra, che continuavano ad aumentare i casi di lesioni legate alle misure di isolamento.

Alla fine delle udienze il giudice aveva sollecitato le autorità, già sanzionate più volte, a procedere meglio, più in fretta e in diverse direzioni: sveltendo i tempi e destinando nuove risorse alle indagini per i casi di abusi; aumentando la sorveglianza e riqualificando i centri di accoglienza per minori; creando procedure di coordinamento tra autorità di controllo e agenzie statali. Richieste che sono state sistematicamente disattese negli ultimi anni, al punto che il giudice distrettuale è stato costretto a chiedere l’intervento di un’unità investigativa federale, sintomo che il rapporto di fiducia con le autorità statali è stato logorato da anni di inadempienze e criticità irrisolte. Anni nei quali si sono avvicendati con una tremenda regolarità nuovi casi e nuove indagini a cui hanno fatto seguito condanne e risarcimenti per le vittime.


Nel 2011, per esempio, la class-action intentata dalla ONG New York’s children right group aveva ottenuto il riconoscimento da parte della corte della violazione dei diritti costituzionali di oltre diecimila bambini. A questa è seguita un’ulteriore condanna nel 2015, che ha spinto Jack a nominare due supervisori federali incaricati di monitorare il processo di riforma del sistema di tutela e affidamento dei minori nello stato. Poi, nuovamente chiamata in causa nel 2019, il giudice distrettuale ha constatato la sostanziale assenza di progressi da parte delle autorità statali, multandole con un’ammenda di centocinquantamila dollari per “dereliction of duty” – in altre parole, per non aver fatto abbastanza. Da questo punto di vista, la pandemia ha rappresentato una nuova occasione per confermare le inadempienze del sistema, esemplificate da un caso drammatico in una struttura di Houston nella quale un bambino di dieci anni, in attesa di affidamento, è morto a seguito di un’embolia polmonare. Lo staff aveva aspettato più di un’ora dalla comparsa dei primi sintomi prima di chiamare il 911. Come se non bastasse, in questo come in altri casi simili documentati a Corpus Christi, nella contea di Bexar o a Galveston, i centri sono rimasti aperti per mesi dopo la rilevazione di gravi inadempienze. Nel frattempo, le autorità si sono semplicemente limitate a non destinare nuovi minori.


Tutto ciò stride non poco con l’immagine di uno stato moderno e in rapida crescita che l’economia texana riesce a mostrare. E però è proprio da questi aspetti che si dovrebbe misurare il grado di civiltà di una comunità e delle sue istituzioni.


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