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Su "Aboliamo le prigioni?" di Angela Davis

Perché di carcere non si scrive come ne scrive Angela Davis.

Minimum fax ripubblica uno dei libri più celebri di Angela Davis
Aboliamo le prigioni, Angela Davis

Facciamo che vi hanno chiusi a chiave in uno sgabuzzino buio e davvero piccolo – diciamo, circa tre metri quadri. Facciamo che là dentro, avete un bagno, una finestra sbarrata e un letto, dovete passarci una decina d’anni, o magari il resto della vita. Facciamo anche che tutto vi ricorda la reclusione, continuamente: lo sferragliare delle chiavi che ogni giorno chiudono e aprono lo sgabuzzino, gli scatti delle serrature, le sbarre, la sorveglianza capillare. Come ve la cavate?


All’inizio del romanzo Memorie da una casa di morti di Fëdor Dostoevskij, il protagonista racconta dell’effetto che la prigionia e i lavori forzati producono su uno dei detenuti della colonia penale:


«C’era un forzato la cui occupazione favorita nel tempo libero era contare pali. Ce n’erano mille e cinquecento, e per lui erano tutti contati e numerati. Ogni palo per lui stava a significare un giorno; ogni giorno conteggiava un palo in più e, in tal modo, dal numero che avanzava di pali non ancora contati poteva vedere in modo chiaro quanti giorni gli restavano ancora da scontare nella colonia penale fino allo scadere del termine. Era sinceramente lieto quando terminava un lato dell’esagono».

Ecco, in carcere funziona grosso modo così: il tempo non è qualcosa di cui si può liberamente disporre, ma qualcosa che viene inflitto: uno stillicidio di mesi e anni che bisogna imparare a sopportare con pazienza e rassegnazione. E di una pazienza simmetrica, quasi stoica, c’è bisogno anche per raccontarlo, per descriverlo: facendo con calma la cronaca della quotidianità; tenendosi alla larga dall’indignazione ed evitando di spingere sulla retorica; lasciando che le umiliazioni emergano senza farne un blasone, cioè senza sperticarsi in pistolotti e catechismi. Si capisce che è un programma poco tentante: trattenersi, descrivere pacatamente, dire delle cose sensate con il massimo dell’understatement, sono tutte cose che costano fatica, studio, e non gratificano il narcisismo. Meglio alzare i toni, dichiarare catastrofi o prestare la propria voce a grandiose opere di emancipazione; ma soprattutto meglio l’incoercibile tendenza a pensare che la costernazione possa sostituirsi alla fatica della critica. L’idea è che basti indicare il problema, e chiunque capirà. Invece non capita così. E le cose vanno anche peggio se, come accade, la costernazione si trama di idee ricevute, di stereotipi marchiani, di argomenti speciosi e minatori, e in filigrana s’indovina la devozione a un’etica, una verità, una Causa. Così – in un discorso semplificato al massimo, e spesso schiacciato su un manicheismo dai toni corrivi e liquidatori – ogni questione, ogni caso concreto si riduce a sintomo, e finisce per perdersi nella notte hegeliana delle vacche nere.


Tutte queste brutte qualità, tutte in una volta, si trovano distillate, mi pare, in Aboliamo le prigioni? di Angela Davis. E quindi stupisce un po’ – si fa per dire, si sa come funziona l’editoria italiana: corporativismo, familismo tribale, produzione ipertrofica di etichette magnificanti e ossequiose (non c’è libro, non c’è autore che non sia a vario titolo iconico, geniale, urticante, bruciante, imperdibile, e via elencando fino all’overdose aggettivale da battage mediatico) – stupisce, dicevo, che la bandella della traduzione-ristampa elogi la «lucidità scientifica» della Davis. A parte che uno si chiede cosa diavolo significhi «lucidità scientifica», e a parte l’abuso della parola-feticcio scientifico (a quando una moratoria?), è una formula che forse può venire in mente leggendo studiosi seri come Kukathas, Serianni, Rauch, e cioè studiosi equidistanti da ogni forma di gregarismo e non facili agli entusiasmi, che preferiscono descrivere con pazienza e precisione l’oggetto che studiano, barattando le proprie idee ogni volta che la realtà ne lascia percepire l’obsolescenza, e che insomma non hanno alcuna fretta di esprimere giudizi o emettere condanne.


Davis invece fa più o meno il contrario: imbastisce una storia piuttosto lambiccata di un dominio pervasivo, che va cercato frugando nelle pieghe della realtà; giura sulle parole dei maestri (Foucault, Bourdieu, Marcuse); aderisce a un sistema di pregiudizi scambiato per Metodo (per esempio, l’affettatrice intersezionale); e, soprattutto, ha il tono predicatorio di chi ritiene più importante formare delle coscienze anziché portare dei buoni argomenti per arricchire la conversazione tra gli interessati. In gran parte, i capitoli di Aboliamo le prigioni? sono congegnati così: un loop di assiomi e giudizi apodittici intorno alla natura violenta del capitalismo, alle sue conseguenze e alla responsabilità delle grandi corporation, un loop che genera una sensazione frastornante – per l’ottima ragione che Davis, per articolare questi assiomi, ricorre a una gragnuola di entimemi e fumose tautologie, a paralleli e accostamenti peregrini tra istituzioni e fatti storici che a un secondo sguardo c’entrano ben poco l’uno con l’altro, e, soprattutto, a insopportabili pose retoriche. Ne deriva, dietro la cortina dei concetti e dei rant ideologici, una ridottissima comprensione della realtà. Un paio di esempi bastano per rendere l’idea.


Qui Davis – non si capisce bene come – trae una serie di conseguenze che non sono affatto deducibili dalla premessa che pone:


«Per sottrarsi alla manodopera organizzata di questo paese – e quindi a salari più alti, contributi da versare e via dicendo – le corporation girano il mondo in cerca di nazioni che offrano sacche di manodopera a basso costo […]. Un gran numero di persone perde il lavoro e ogni prospettiva di un impiego futuro. L’istruzione e altri servizi sociali superstiti sono profondamente influenzati dalla distribuzione della base sociale di queste comunità. Il processo trasforma gli uomini, le donne e i bambini che vivono in tali comunità danneggiate in candidati perfetti per il carcere. Intanto, le corporation collegate all’industria penitenziaria mietono profitti dal sistema che gestisce i detenuti, e sono quindi chiaramente interessate alla continua crescita della popolazione carceraria. In parole povere, questa è l’era del complesso carcerario-industriale. Le prigioni sono diventate buchi neri in cui vengono depositati i detriti [sic] del capitalismo contemporaneo» [p. 17].

Qui invece ricorre a quel genere d’indignazione minatoria di cui si farebbe sempre volentieri a meno:


«Quanti di noi hanno avuto occasione di visitare qualcuna delle ville del XIX secolo costruite originariamente nelle piantagioni dove lavoravano gli schiavi, di solito non riescono ad apprezzarne appieno la bellezza. Il nostro immaginario visivo comprende abbastanza immagini della fatica degli schiavi neri per permetterci di intuire la brutalità che si nasconde dietro la superfice di quelle splendide dimore […]. È oltremodo inquietante pensare che le moderne aree urbane industrializzate sono il frutto di un sistema razzista di lavoro forzato descritto spesso dagli storici come peggiore delle schiavitù» [p. 37].

Il fatto è che questo pattern è replicabile virtualmente all’infinito. Uno si chiede, per esempio, se si debba avere la stessa reazione compunta di fronte a una tela di Tintoretto. Voglio dire: nelle botteghe i pittori finivano spesso per picchiare, affamare e sottopagare i garzoni (nell’Archivio di Stato di Venezia c’è una divertente serie documentaria che attesta un mucchio di episodi, processi e fughe picaresche), ma questo non significa che uno debba corrucciarsi di fronte a un quadro di Veronese, o che non si possa «apprezzarne appieno la bellezza». Riconoscere e condannare le ingiustizie della storia è giustissimo, rovesciare la condanna sugli oggetti che la storia ha prodotto no: è solo da filistei.


Superata la barriera della forma, bisogna dire qualcosa sul contenuto. Il libro ruota intorno a un’idea di forte impatto emotivo ma del tutto marginale, se l’obiettivo è stabilire le cause dell’incarcerazione di massa: che le prigioni private, e le aziende che erogano servizi a carceri e carcerati, spingono per leggi draconiane e pene più lunghe facendo lucrosi affari a spese di troppi esseri umani. Non è che sia un’idea sbagliata, è che svia l’attenzione da cause più stringenti, fa prendere di mira bersagli largamente sopravvalutati, e insomma manca il cuore della questione e non aiuta in alcun modo a studiare e descrivere il problema dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. Come ha mostrato molto bene John Pfaff (ci torno), i dati semplicemente vanno in altre direzioni. Il che, vale la pena ripeterlo, non significa che le prigioni private non siano parte del problema, ma solo che Davis ne enfatizza troppo l’importanza – contrabbandandole per la causa primaria – mentre non presta alcuna attenzione, per esempio, al ruolo delle procure, all’attivismo dei sindacati delle guardie carcerarie, alla retorica, alla propaganda politica. Insomma, se suona come una critica dogmatica è perché lo è. Uno vorrebbe leggere più pagine in cui Davis descrive i modi e la brutalità della violenza nelle carceri – pochissime, diciamo una trentina in tutto – che funzionano molto bene perché al centro del racconto c’è la realtà in presa diretta (non la visione della realtà, che a me pare sempre vitanda), e molte meno pagine in cui Davis si abbandona al flusso delle idées reçues, cercando di far passare l’idea che trovare il modo di vivere più umanamente sotto una società capitalista sia impossibile.


E però dato che questa critica è il basso continuo del libro, e dato che viene anche strettamente legata ad altri problemi del carcere, come il razzismo, conviene riportare qualche esempio:


«Quantunque l’affitto dei detenuti sia stato legalmente abolito, lo sfruttamento si ripresenta nella privatizzazione e, più in generale, nella diffusa industrializzazione della pena che ha prodotto il complesso carcerario-industriale [p. 39]. […] i mutamenti economici e politici degli anni Ottanta del Novecento – la globalizzazione dei mercati, la deindustrializzazione dell’economia statunitense, lo smantellamento di programmi di assistenza sociale come Aid to Families of Dependent Children […] e, ovviamente, il boom dell’edilizia carceraria – hanno prodotto un’accelerazione significativa nel tasso di detenzioni femminili tanto negli Stati Uniti quanto all’estero [p. 68, che è uno strano e un po’ confuso affastellamento di concetti]. Il massiccio progetto di edilizia carceraria avviato negli anni Ottanta ha fornito il mezzo per concentrare e gestire quella che il sistema capitalistico ha implicitamente dichiarato come un’eccedenza umana [p.96]. Inoltre, il trend della privatizzazione delle prigioni – con la crescente presenza delle corporation nell’economia carceraria e l’istituzione di prigioni private – ricorda gli sforzi storici per creare una redditizia industria della pena fondata sulla fornitura di lavoratori neri «liberi» dopo la guerra di Secessione» [p. 98].

In questi casi, come spesso altrove, Davis scova rapporti, simmetrie, parentele sulla base di analogie che nel migliore dei casi sono solo superficiali. Analogie che convergono tutte nell’appassionata filippica finale: «Il diffuso coinvolgimento delle imprese private nelle prigioni ha considerevolmente alzato la posta per l’attivismo contro il carcere, perché i militanti seri devono essere disposti a guardare, nelle proprie analisi e strategie organizzative, molto al di là della pura e semplice istituzione della prigione. La retorica della riforma […] non può funzionare in questa nuova situazione […]. Ciò significa che, nell’era del complesso carcerario-industriale, gli attivisti devono porre domande difficili sul rapporto tra il capitalismo globale e la diffusione mondiale di prigioni secondo il modello statunitense [p. 105]». Non stupisce, date le debolissime premesse, che Davis ricorra a formule feticcio e impressionistiche come «guardare molto di là» o «porre domande difficili» per rafforzare l’impalcatura del discorso. Uno però ha l’impressione che il punto non sia il carcere.


Ora, una delle cose che Davis ripete più spesso, come accennavo, è che le prigioni private, e le aziende che erogano servizi al sistema carcerario, si costituiscono in lobby esercitando una forte pressione sui media e sulla classe politica per ottenere pene più lunghe, riempire le celle e guadagnare un mucchio di soldi. Il che ovviamente è verissimo. Solo che la pressione esercitata da questo lobbismo (largamente sovrastimata da Davis) non basta per giustificare l’aumento delle incarcerazioni.


Da un lato questo lobbismo si concentra solo in una manciata di stati, e anche qui in maniera molto disomogenea: dal 1986 al 2014 le prigioni private hanno speso in attività di lobbying circa 13 milioni, di cui il 40 % in Florida e il 12 % in California.[1] Eppure in questi stati l’aumento delle incarcerazioni non è stato più alto che altrove né ha subito impennate. E anche se le corporation che partecipano a questo lobbismo non devono fare i conti con lobby che hanno interessi opposti all’espansione del sistema carcerario, devono comunque competere, per dirla con Pfaff, con «bureaucracies and advocates struggling to get their hands on the same limited pool of dollars, such as schools and universities, hospitals, and transportation providers […]». E, di norma, si tratta di gruppi che hanno molti più fondi e influenza: nel periodo di tempo già citato i gruppi di pressioni provenienti dal settore educativo hanno speso circa 256 milioni in attività di lobbying e quelli provenienti dal settore medico più di 360 milioni. Naturalmente bisogna tenere a mente che le prigioni private, come accennavo, investono solo in una manciata di Stati, e quindi queste cifre rischiano di dare delle proporzioni sbagliate per quanto riguarda gli Stati in cui le prigioni private spendono davvero i loro soldi. Resta il fatto che in Florida (cioè nello stato in cui più è forte e attiva la lobby carceraria) i gruppi del settore medico spendono cinque volte di più delle prigioni private e quelli del settore scolastico circa il doppio.


Dall’altro lato, è molto difficile separare l’impatto del lobbismo dei privati dagli sforzi del settore pubblico – che trae gli stessi vantaggi da leggi più severe, e oltretutto può accedere più facilmente alla classe politica – per garantirsi un afflusso costante di detenuti e una loro lunga permanenza. In Locked In Pfaff cita questo caso: nel 2015 la New York State Correctional Officer and Police Benevolent Association si oppose alla decisione di chiudere alcune prigioni, nonostante la popolazione carceraria fosse diminuita di più del 25% dal 1999, per impedire che le guardie carcerarie perdessero il loro lavoro. E ne cita anche un altro, che a me pare particolarmente rilevante, in cui gli interessi dei privati confliggono con quelli del Pubblico e della politica. Solo che a spuntarla è il Pubblico, non i privati: «In 2012, for example, GEO Group – which is head-quarted in Florida – attempted to privatize 27 prisons in Florida and take responsibility for about 14,000 inmates. The bill to do so had the support of Rick Scott, the state’s Republican governor at the time, and the state’s strongly Republican Senate (28 Republican senators to 12 Democratic ones). Yet the bill died in the Senate by a vote of 21-19. Faced with the prospect of losing 3,000 public prison guard jobs, the public employees’ union managed to get nine Republicans to join all the Democratic senators to defeat the bill».

E però, essere tough-on-crime conviene soprattutto ai procuratori, dato che si tratta del modo più veloce ed efficace per fare carriera (avete presente The Good Wife? Ecco, funziona così). Con le parole di Gopnik: «Since most prosecutors are elected, they might seem responsive to democratic discipline. In truth, they are so easily reelected that a common path for a successful prosecutor is toward higher office. And the one thing that can cripple a prosecutor’s political ascent is a reputation, even if based on only a single case, for being too lenient». Che è la ragione per cui non c’è quasi limite al modo in cui i procuratori usano il loro incarico e i poteri che gli sono stati assegnati per minacciare imputati e avvocati difensori spingendoli ad accettare pene molto lunghe – la grandissima parte delle cause negli Stati Uniti si chiude con un patteggiamento: il rischio di essere imputati per un crimine molto più serio e vedersi comminata una pena lunghissima è un formidabile incentivo ad accettare pene già molto lunghe. Com’è ovvio, perché si attivi questo tipo di dinamica, non c’è bisogno dell’intervento di alcuna lobby.


C’è poi, nel libro, l’idea molto dylaniana – money doesn’t talk, it swears – che il profitto sia un’aggravante più che una condizione. L’idea cioè che chiunque faccia affari con il sistema carcerario sia da boicottare, perché allo scopo di fare sempre più soldi – e sempre nello stesso modo, cioè risparmiando sulla formazione del personale, sulla qualità del cibo o dell’assistenza sanitaria e costruendo più celle per chiuderci dentro i detenuti (tutte cose che in effetti accadono) – impedisce che le cose cambino. Ci sono però almeno tre problemi. (1) Nelle carceri private è rinchiusa solo una piccola parte dei detenuti: e se anche si decidesse di abolirle domani, e di liberare tutti i detenuti con una sanatoria, la popolazione carceraria non scenderebbe più del 9%. (2) La chiusura delle prigioni private è fattibile e anche auspicabile (molti stati ne fanno già a meno); mentre un po’ meno fattibile, e forse nemmeno così auspicabile, sembra rinunciare a quella rete di servizi (linee telefoniche, sapone, abiti, lenzuola, alimenti, farmaci, mezzi di trasporto) offerti in gran parte da privati. Non che non si possa porre un limite alla quantità di servizi che si appaltano, magari anche pensando che alcuni di questi possano essere auto-forniti dai detenuti stessi grazie a dei corsi che agevolino anche il reinserimento in società, che creino un curriculum; ma mica possiamo delegare tutto ai detenuti. (3) A orientare le scelte delle corporation su cosa tagliare e come investire i soldi sono i contratti, non una presunta natura intrinseca del mercato (tant’è che a parità di incentivi prigioni pubbliche e private tendono a comportarsi esattamente allo stesso modo). Vale a dire che se gli incentivi sono vincolati al numero di celle che un carcere riesce a riempire, non c’è molto che uno possa fare se non lasciare meno posti letto vuoti possibile. Ma se cambiano le condizioni, e cioè se revisioni contrattuali o precise scelte politiche intervengono per rendere più conveniente investire, che so, sulla qualità dei servizi sanitari all’interno delle carceri o su percorsi e strutture di riabilitazioni, cambiano anche le scelte, il giro d’affari delle aziende. Insomma, cambiare i contratti, pensando a un nuovo sistema di incentivi e disincentivi per uscire da un circolo vizioso e crearne uno virtuoso, si può, cambiare le coscienze invece è più difficile – e forse, di nuovo, nemmeno auspicabile. Almeno questa saggezza, anche per quello che è successo in questi anni a proposito della transizione energetica e del cambiamento climatico, dovrebbe arrivare con l’esperienza: se non arriva, se ancora si stenta a capire che non ha molto senso demonizzare il profitto – e non denunciare le aziende quando evadono le tasse o schiacciano vite, che è doveroso –, non è un problemi di parti o di militanza più o meno seria, è un problema di intelligenza, e non basterebbe a risolverlo neppure una rivoluzione radicale.


Infine, per quanto riguarda le alternative che individua Davis, che dire? Sono d’accordo con tutto, sottoscrivo tutto. Meglio depenalizzare droghe e prostituzione, meglio evitare di rinchiudere chi entra nel paese senza documenti, meglio una giustizia riparativa piuttosto che una punitiva, meglio riabilitare che isolare. E, certo, meglio abolire le prigioni, se le prigioni sono (como sono) uno strumento che serve a umiliare, uccidere e peggiorare la vita di tanti esseri umani anziché rappresentare un’occasione per ricostruirla. Solo che, a differenza di Angela Davis, non credo che questo progetto si possa ottenere solo con una scelta radicale. Un po’ perché quella della scelta radicale come unica-soluzione è una formula retorica passepartout così diffusa nella pubblicistica degli ultimi due secoli da far pensare che meriti forse meno credito di quello di cui generalmente gode; un po’ perché non credo che l’abolizione del carcere vada usata come un ariete per abbattere il sistema; e un po’ perché a me pare che la questione più urgente sia quella che pone Gopnik in un bellissimo pezzo del 2019 per il New Yorker: «What we seek from a sense of indignation about America’s criminal-justice system is not to release the innocent but to humanize the treatment of the guilty. Even if all the prisoners had done what they were imprisoned for, the moral question remains whether anyone deserves to be put in a bathroom-size cell for the rest of his or her life». Una questione che ha molto a che vedere, mi sembra, con la tendenza a ridurre l’autore del crimine al crimine stesso, anziché distinguere come si dovrebbe fare – e come si fa, per esempio, tra peccato e peccatore, tra l’errore e chi lo commette. Quella dell’abolizionismo è una nobile battaglia, ma è bene che le voci che la combattono si preoccupino di descrivere al meglio la quotidianità insensata di un’istituzione costosa, violenta, così ostinatamente sottratta a sguardi esterni e perfino dannosa per quella stessa sicurezza che dichiara di tutelare, piuttosto che impancarsi a maître à penser. Di voci così ce ne sono tante, tantissime anche in Italia, e vale la pena ascoltarle tutte: Alessandro Capriccioli, Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Daniela Ronco, Valentina Calderone, Federico Resta. E poi c’è sempre Dostoevskij.


UNA NOTA ALL’EDITORE


Una parte non piccola dei libri che stanno sullo scaffale in cui conservo i miei saggisti preferiti li ha pubblicati minimum fax (Zadie Smith e Wallace su tutti), anche per questo è molta l’ammirazione per il lavoro che svolge di solito la casa editrice. Da qui, una serie di osservazioni sparse. Serviva proprio una claque un po’ patetica alla fine di questo libro (ossia di un libro scritto da un’autrice su cui già si esercitano i mitografi)? Non si poteva trovare di meglio dell’intervista genuflessa, dell’appendice che aggiunge altra dottrina, altra scolastica (con la meritoria eccezione – l’ammirazione è lecita, il dogmatismo no – di Valeria Verdolini, che è la sola a restare ancorata alla realtà, a non usare pretestuosamente il carcere per condannare il capitalismo). Non era meglio riassumere i cambiamenti intercorsi tra il 2003, anno della prima edizione di questo libro, e oggi? Non era meglio contestualizzare, precisare? E, dato che nella bandella si cita Capua Vetere, non era preferibile distinguere tra il sistema statunitense e quello italiano? Altrimenti, specie tra i lettori meno avvertiti, si alimenta la tendenza a confondere o mescolare tra loro enti e concetti che sarebbe meglio invece tenere separati, e si legittima l’idea che esistano delle soluzioni passepartout a problemi complessi. Insomma, perché spingere sulla retorica, sull’attualizzazione? Non mi pare un bel modo di fare gli editori (un modo serio). Poi, certo, uno ha tutto il diritto di scegliere che libri pubblicare e se militare o meno per una causa: ma chiedere uno sforzo in più nella cura dei libri non è chiedere troppo.


[1] Tutti i dati, se non diversamente specificato, sono tratti da John Pfaff, Locked In, New York, Basic Books, 2017, ed. digitale.

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