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Poplar! Un delizioso soggiorno a Trento

Il 15 e il 16 settembre siamo andati a Trento per seguire il Poplar.

Nello Trocchia (al centro) e Chicoria (a destra). Foto di Giorgio Dalla Zeta.


1.


Più o meno a metà della pausa agostana, durante una riunione di redazione sesquipedale, Valentina se ne esce così: «Quest’anno al Poplar c’è un sacco di gente interessante. Ci andiamo?». Uno di noi – Enrico – è titubante: «Vabbè, ma modera tutto «Scomodo»… Voglio dire, niente di male eh, ma insomma si poteva anche trovare qualcun altro, soprattutto se uno ci tiene al pluralismo». Ma è l’unico, gli altri sono tutti d’accordo: vogliamo andarci per gli ospiti, chi se ne frega.


Perciò noi andiamo a Trento, e ci andiamo per ascoltare Chicoria, Nello Trocchia, Luca Romano.


Qualche parola sul noi. Siamo: Giorgio, Alessandro ed Enrico. Giorgio è qui per fotografare, fare video e, dice, perché non è ancora stato all’Abbazia della birra (che, scopriamo, è un delizioso beer shop) e gli sembra un peccato perdere l’occasione. Alessandro vuole vedere Luca Romano e lo Sgargabonzi, «il migliore scrittore comico italiano». Proviamo a dissuaderlo: ci sono così tanti panel interessanti, così tante persone da ascoltare: lo Sgargabonzi può sempre andarselo a vedere un altro giorno. E poi che accidenti di nome è “Sgargabonzi”? No, non ci vogliamo andare. Ma non c’è verso: la macchina è sua, decide lui. Enrico invece vuole rivedere gli affreschi del Romanino e il Ciclo dei Mesi di Wenceslao, e poi sa un po’ di carcere e gli piacerebbe scambiare due parole con Nello Trocchia. Al Castello del Buonconsiglio però ci andrà da solo: la macchina è di Alessandro, decide lui.


Ma divaghiamo. Quello che intendevamo dire è che al Poplar ci siamo venuti per ragioni diverse ma con l’intento comune di passare un paio di giornate piacevoli: conoscere delle persone, dei giornalisti esperti, dei bravi comici – almeno secondo Alessandro, noi restiamo poco convinti.


Ora, per arrivare a Trento ci sarebbe l’autostrada, ma si dà il caso che a settembre gli universitari tornino in città e va sempre a finire che il tratto Verona-Trento diventa un imbuto impraticabile, perciò optiamo per la Valsugana. Una scelta che si rivela strategica, dato che alle nove riusciamo a parcheggiare la lancia Y un po’ scassata di Alessandro a San Severino. E a quel punto Enrico ci riprova: c’è tempo, si va al Castello? Ma Alessandro interviene e chiarisce una buona volta: la macchina è sua, decide lui; e lui non ci pensa nemmeno a parcheggiarla laggiù. Giorgio, che in redazione ha il compito di mediare, conclude: tu vai, noi intanto facciamo colazione, poi dritti a Piedicastello.


Un paio d’ore e siamo al Poplar, o meglio nella location del Poplar, perché gli incontri partono nel pomeriggio – alle tre, per quanto ci riguarda – e quindi ci resta un mucchio di tempo e poche idee su come occuparlo. Enrico parte con una lista di cose-da-vedere-assolutamente: ci sarebbe la bottega di un vinaio veronese dentro l’area archeologica di Palazzo Lodron, le fogne romane sotto palazzo Thun, la cattedrale e il quartiere delle Albere. Ma sono meraviglie che a Giorgio e Alessandro dicono pochino: i troppi viaggi di istruzione fatti durante il liceo, per lo più in compagnia di vecchi professori tromboni, li hanno resi insofferenti a questo genere di cose (e per delle ottime ragioni: la retorica, il vagare sconclusionato da un posto all’altro con l’unica intenzione di vedere-il-più-possibile, la quantità di temi e relazioni da produrre su quanto è stato visto o detto in viaggio). Segue una pacata discussione sul tema ‘che diavolo facciamo?’: si vagliano diverse possibilità («andiamo a prendere un bubble tea?» «ma che roba è un bubble tea» «e che ne so»), si misura il tempo che abbiamo a disposizione rapportandolo al tempo che ci metteremmo per, ma alla fine arriva mezzogiorno e prevale l’idea di starsene a Piedicastello e trovare un posto per mangiare. I ristoranti in zona non sono molti, e soprattutto non sono molti quelli che Giorgio ritiene all’altezza delle nostre papille gustative. Così, dopo aver consultato un paio di settantenni autoctoni, decidiamo di seguire le loro indicazioni e ci dirigiamo verso il ristorante «Il Libertino». Mangiamo benissimo: torneremo al Libertino per tutti i pasti del nostro soggiorno.


Più tardi, quando usciamo dal ristorante, il clima attorno a noi è euforico, quasi fibrillante: la piazzetta è popolata da una ridda di studenti universitari che chiacchierano, fumano e insomma aspettano che inizi un festival pensato per loro, organizzato da loro. Ma non bisogna andare al Poplar con la speranza di prendere appunti sulle Nuove Generazioni: i ragazzi qui raccolti sono pochi, non tanti comunque, concentrati in una particolare fascia d’età (tra i venti e i venticinque anni), e insomma un campione tutt’altro che rappresentativo. Alcuni sono qui per caso, molti per interesse o perché a Trento ci studiano e tanto vale fare un giro, quindi, se si cerca di capire chi erediterà il paese – ed è già volgare farlo – è meglio guardare da altre parti. E però, sedendosi nel rettangolone di sedie azzurre perfettamente allineate e rivolte verso il palchetto, non è strano sentire frasi come questa: «Noi non è che possiamo dirlo… Cioè, non possiamo dirlo a loro perché altrimenti ci prendono per scemi, ma lo sappiamo che se le Università facessero cose di questo genere sarebbero più frequentate, più vive». Vabbè, pensiamo noi lanciandoci un’occhiata, ma uno mica può aspettarsi che l’Università chiami Irene Graziosi, non si può sempre cedere al Presente. Poi però ci ricordiamo dei tanti vecchi intellettuali carogne invitati dall’Università che abbiamo ascoltato pontificare per ore in micidiali conferenze sul senso e le direzioni della modernità. Cosa avevano da dire? Niente che non avessero già scritto, detto o ripetuto negli ultimi cinque anni. Meglio i giovani allora. Meglio Irene Graziosi.


Nel frattempo, Luca Romano si è seduto sul palchetto a dieci metri da noi in tenuta casual, jeans stretti, camicia di lino azzurra con le maniche rimboccate e stivaletti Lumberjack tirati a lucido (passeremo cinque minuti abbondanti a chiederci se li ha fatti pulire o se davvero è immune alle pillacchere di cui sono seminate le nostre sneakers). È il secondo panel della giornata e c’è già un mucchio di gente: le seggiole vengono occupate in fretta, e in molti, pur di assistere, si fermano attorno al palchetto o sulle aiuole ripidissime che separano il piano stradale dalla conca in cui si tiene il festival. Romano inizia spiegando com’è nato il progetto di divulgazione sul nucleare Avvocato dell’Atomo, come gli è venuto in mente il nome; poi, preparatissimo, sciorina una serie di dati che contestualizza in maniera perfetta e di cui spiega effetti e ragioni attraverso una lunga serie di esempi a misura di dummy (come noi, che ogni volta ci guardiamo e pensiamo «Ahhhh»). E insomma si riconosce subito e si ammira, in lui, quella bravura che, quanto a élan comunicativo, potrebbe anche non sfigurare nel paragone con i migliori divulgatori. Ascoltandolo si impara, per esempio, che poche cose sono più testate e sicure delle cisterne per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi, dato che nei crash test si scagliano contro questi barilotti pieni di scorie treni lanciati a 300 km/h, oppure si simulano terremoti, bombardamenti e altri eventi catastrofici di questa portata. Perciò è difficile che provochino danni, è difficile che siano quelle cisterne a farci morire o ammalare. La conduzione invece – modera «Scomodo» – è un po’ piatta, e più di qualche volta, ci pare, Romano è costretto a prendere in mano la situazione. Per esempio, quando sgancia questa bomba su una platea che sembra contare parecchie adesioni ai Fridays for future: «I movimenti ambientalisti, se vogliono essere efficaci, non possono nutrirsi solo di isteria e paura». Brusii di sottofondo, costernazione. Ma poco male, perché alla fine dell’intervista si forma un capannello di interessati intorno al palco, e Romano sembra gradire: chiacchiera amabilmente, mantenendo un tono di voce piuttosto alto per raggiungere tutti gli astanti, e commenta i programmi dei partiti, la campagna elettorale. Dice, tra le altre cose, che finché la sinistra sarà trainata dalle posizioni dei suoi elettori più che da analisi razionali e valutazioni di merito, le cose continueranno ad andare male: «So per certo che Bersani è favorevole al nucleare, come buona parte della segreteria del PD, ma finché gli elettori saranno contrari – cinquanta no, trenta sì, venti non so – non bisogna aspettarsi dietrofront». E a noi pare la descrizione perfetta di un partito che non sceglie niente, che non vuole niente.


Poi, lo Sgargabonzi. Prima di iniziare, il presentatore chiede a tutti di non fare foto o riprese su esplicita indicazione dell’ospite, e a noi viene in mente questo magnifico dialogo tra Jude Law e Cécile de France su Salinger, Banksy, i Daft Punk e la curiosità pruriginosa che alimenta l’anonimato. Iniziamo a pensare che il vero obiettivo di Gori sia una villa sul mare. Poco dopo inizia lo show, e ci accorgiamo che è cambiato il repertorio e sono cambiate le battute, ma il dispositivo comico a cui ricorre lo Sgargabonzi è sempre lo stesso: prendere in giro – scimmiottandole – la pornografia sentimentale e la bêtise della scena mediatica italiana, il nostro modo di discutere su internet, di usare i social (Facebook, soprattutto). E però, a parte Alessandro, che, insieme a un certo numero di aficionados, sembra molto divertito, ci pare che le risate siano distribuite secondo un criterio quasi generazionale: intorno ai trent’anni si ride, intorno ai venti si ridacchia. E a pensarci bene non è affatto strano: la comicità di Gori deve essere quasi incomprensibile per chi Facebook l’ha usato poco o pochissimo, per chi non è cresciuto leggendo i post avvolti nel kitsh di una serqua di adolescenti cretini – ma anche, ma soprattutto, di quarantenni decerebrati. Il fatto è che questa roba non è finita su Instagram, Twitch o TikTok, e quindi è normale che chi ha passato l’adolescenza su questi social (Instagram è del 2010, TikTok del 2016) non riesca ad afferrare l’ironia di Gori. Eppure, anche chi afferra l’ironia e coglie i riferimenti (come Enrico, uno che non è né davvero millennial né davvero della generazione Z, dato che è nato in quel giro d’anni sfigatissimo che sta nel mezzo – e quindi si è dovuto sorbire le idiozie degli uni e degli altri) ne ride stancamente, come per abitudine. Nessuna colpa o mancanza: è solo che di questa roba in molti hanno già riso abbastanza, e ora vedono intorno a sé tic e nevrosi collettive diverse, più largamente diffuse.


La sera, dopo la doccia di routine, ci incontriamo al Libertino con un paio di colleghi e un tizio spagnolo che, ci spiegano, si è appena stabilito a casa loro perché in centro gli affitti costano un occhio della testa e le startup non sempre pagano bene, e poi è un buon modo per ammortizzare l’aumento delle bollette e contemporaneamente dare una mano a un amico. Entriamo, e una sessagenaria platinata ci fa accomodare a un tavolino all’angolo che, ci dice, è il più caldo del locale. Per un attimo, guardiamo con un po’ di apprensione la comitiva di alpini che si è installata a due tavoli di distanza e sfoglia un album di fotografie ingiallite ingollando bicchieri di vino, ma la cameriera ci rassicura: sono lì da più di un’ora, non resteranno a lungo. Noi un po’ ci vergogniamo, perché la meravigliosa cortesia della signora cozza con la nostra imperdonabile mancanza di gentilezza, e quindi segue una serie di giustificazioni impacciate e poco convincenti: «Macché… figurarsi… il locale è di tutti». Dopodiché ordiniamo due antipasti e tre secondi di pesce da dividere, tranne Horacio che, piuttosto contrariato dalla nostra scelta, chiede bofonchiando se è possibile avere un mix di verdure cotte. Più tardi, mentre noi ci avventiamo sul pesce, Horacio prova a esporre le sue ragioni, ma l’argomentazione si perde un po’ nell’incertezza dell’accento, anche se è chiaro che la combo capitalismo più inquinamento più allevamenti intensivi non gli va a genio. Per fortuna nessuno dei nostri colleghi sembra aver voglia di infilarsi in una discussione del genere, e Giorgio riesce provvidenzialmente a svicolare: «Che poi, con quelle pubblicità ineludibili che piazzano ovunque, sono riusciti a rendere invivibile pure YouTube… I capitalisti dico». Sì, siamo tutti d’accordo, il capitalismo è una tragedia, una calamità, un flagello biblico: bisognerebbe marciare compatti su Washington perché i pesci migrano, la temperatura sale e non ci importa un fico secco se l’economia gira o non gira: vogliamo YouTube senza la pubblicità.


2.


La mattina dopo ricalibra l’idea che ognuno di noi si è fatto del sublime, perché dalla terrazza del B&B in cui alloggiamo si gode una visita unica su tutta la città, e anche se la nostra albergatrice si lamenta dell’ammasso di fabbriche che guasta il paesaggio, basta non farci troppo caso, concentrarsi sulla distesa di tetti e vicoli ritorti che si arrampicano sulle colline, o sulla perfetta simmetria del quartiere delle Albere. Ci accorgiamo solo in quel momento che il giardino intorno a noi è pieno di meli, che in settembre fruttificano. A essere sinceri a nessuno di noi piacciono davvero le mele, ma è prima mattina, siamo nelle colline trentine, c’è questo sole scarlatto che inonda di luce l’intera vallata, e insomma ci sembra un peccato non approfittarne, non cogliere l’occasione per sentirci come i primi uomini nel giardino dell’eden. Perciò, con il consenso della signora, lasciamo perdere il buffet e facciamo incetta di mele. Morale: una mezza indigestione ci terrà incollati alle sedie in giardino l’intera mattinata.


Più o meno all’ora di pranzo arriva la notizia che gli organizzatori del Poplar temono la pioggia, poco dopo su Instagram compare una storia che annuncia il cambio di programma: si farà tutto al coperto. In effetti, nonostante Piazza Duomo sia ancora illuminata da un sole magnifico, all’orizzonte si ammassano dei nuvoloni che mettono un po’ di apprensione. Comunque, conserviamo delle speranze: non si sa mai, magari con l’aiuto del vento… E però, quando alle due e mezza arriviamo a Piedicastello, capiamo che la decisione non solo è già stata presa ma è anche irrevocabile, e il risultato è che ora la piazzetta sembra disinnescata, pacificata: nessuna associazione universitaria con relativo stand e manipolo di volontari, che sono abbastanza miti ma un po’ troppo insistenti, nessuno store che vende i gadget del festival, nessuna area ricreativa e niente workshop; resistono solo il chiosco di birre artigianali e qualche area relax. Riposta ogni speranza, decidiamo di seguire un gruppo di ragazzi dello staff che, un po’ preoccupati per la scarsa affluenza, si stanno dirigendo verso un cumulo di edifici sgarrupati. Scopriamo che la saletta in cui si terranno gli incontri di oggi è una palestrina terribilmente calda in cui filtra pochissima luce, e infatti non resistiamo più di dieci minuti. Giorgio fa notare che manca più di un’ora all’incontro con Chicoria e Nello Trocchia, e lui certo non intende sorbirsi un’ora di chiacchiere, piacevoli d’accordo, su come fare per non scuocere la pasta. Per una volta siamo tutti d’accordo: meglio andare al Muse, meglio una passeggiata.


Quando rientriamo Sofia Fabiani sta concludendo l’intervento e scherza, intuiamo, con la sua editor per «Domani»: «Sai, da quando scrivo su «Domani» mi tornano delle bozze piene di correzioni e suggerimenti, mica come quando stavo al «Corriere»! Là si che era gratificante, mi dicevano sempre che ero bravissima!». Una battuta deliziosa che ha due conseguenze: a) ci fa pentire di non esserci fermati un’ora in più, dato che è difficile assistere a una gag del genere e non pensare che Fabiani sia una persona simpaticissima, e b) la sera stessa ci abboneremo tutti a «Domani». Comunque, finito l’intervento la saletta si svuota e si riempie piuttosto in fretta, e dato che le sedie non bastano in molti si piazzano lungo il perimetro della stanza, di fronte ai finestroni spalancati. Intanto il meteo sembra di nuovo cambiato, aria ferma e umidità non aiutano, e le poltroncine rosse su cui siamo seduti si fanno sempre più roventi. Iniziamo a pensare che da un momento all’altro potrebbe anche scattare il sistema antincendio, anzi iniziamo ad augurarci che scatti: sarebbe un sollievo, una benedizione. Per fortuna, prima che a qualcuno venga in mente di onorare l’anniversario e marciare sugli organizzatori, entra Chicoria in impermeabile rosa.


Vorremmo tanto non dover dire che ‘non cambia mai niente’, vorremmo tanto non dover usare questa etichetta logora, inflazionata. Ma tant’è. E s’intende che il problema non è che le cose sono rimaste uguali a cinque, dieci o venti anni fa. Il problema è, da un lato, che le cose sono rimaste uguali nonostante il lavoro e le denunce di giornalisti, uomini politici e associazioni, nonostante le violenze della polizia penitenziaria siano state riprese e fissate sullo schermo (e insomma il problema è anche, almeno in parte, un’indifferenza largamente diffusa); dall’altro lato, che il carcere continua a essere ostinatamente nascosto, sottratto a sguardi esterni. E quindi, prova a spiegare Nello Trocchia, siamo bloccati in questo vicolo cieco irremeabile: dato che l’opinione pubblica sembra curarsi poco della faccenda, non si formano costitunecy che chiedano un cambiamento e non si mobilitano piazze. Che è un modo più preciso di dire che il carcere ha una sua massa inerziale, e che negli anni i problemi sono rimasti pressoché immutati: dall’assenza di simmetria tra pena e reato all’incapacità di distinguere tra il comportamento criminoso e chi ne è responsabile, dalla mancanza di programmi riabilitativi alla violenza a cui sistematicamente ricorre la polizia penitenziaria, dalla mancanza di acqua corrente nelle celle alla presenza di persone con disturbi mentali in carceri che non hanno mezzi e spazi per ospitarli, dalla perquisizione in ogni possibile orifizio alla mancanza di assistenza sanitaria. E invece, per migliorare almeno un po’ la vita dei carcerati, per cambiare un’istituzione così feroce, insensata e persino minacciosa, dato che incoraggia e moltiplica quegli stessi comportamenti antisociali che dovrebbe correggere, bisognerebbe abolire le carceri, minarne le fondamenta… Ma i tempi non sono maturi. Nessuno ha il coraggio di prendere decisioni così radicali. Perciò bisogna informarsi, provare a conoscere, capire, attrezzarsi per il futuro. E, guardandosi intorno, si capisce che per molti quest’anno il Poplar è anche questo: un'occasione per conoscere un mondo che non vuole essere conosciuto. O almeno questa è l’impressione che abbiamo mentre Chicoria racconta del tempo che ha passato a Regina Coeli, perché nessuno distoglie lo sguardo, nessuno si distrae.


Succede questo. Dopo dieci giorni di detenzione, senza la possibilità di ricevere visite o cambiarsi, Chicoria si accorge di avere una brutta piaga sulla caviglia, così allerta la guardia che lo rassicura: «Tra poco te ce manno in infermeria». Passa più di un’ora ma la cella ancora non si apre, quindi Chicoria prova a insistere. «E stai tranquillo! Te ce manno, te ce manno». Passa ancora un’ora e Chicoria, comprensibilmente irritato, perde la pazienza e inizia a sbraitare contro la guardia. Conseguenza: chiudono la blindata della cella. La sera, durante la consegna dei medicinali, Chicoria mostra la ferita all’infermiere e chiede di esser medicato. Le guardie a quel punto accettano di portarlo in infermeria, solo che tornando indietro, circa a metà percorso, si bloccano e iniziano a tempestarlo di pugni all’addome. Solo all’addome, perché «sò furbi, lo sanno che nun te possono sfigurà».


Noi prendiamo nota di qualche caso raccontato da Trocchia e Chicoria, di qualche nome, qualche data, colleghiamo i punti e pensiamo, per esempio, ad Amra – che più o meno un anno fa ha partorito in carcere da sola, senza assistenza medica – convinti che avremo più cose da studiare, che l’esperienza sia stata istruttiva. Ma uscendo dall’edificio e dirigendoci verso la macchina ci accorgiamo che la sensazione di ingiustizia e assurdità è molto più forte, e soprattutto rischia di gravare sul resto della giornata, sul ritorno a casa. E succederà. Ma per ora decidiamo di non pensarci troppo, di non preoccuparci troppo. Un po’ perché Enrico lamenta vertigini e nausea, e temiamo un colpo di calore, un po’ perché vogliamo a tutti i costi intercettare Nello per fargli qualche domanda e un po’ perché Giorgio sta già impostando Google Maps. Destinazione: Abazia della birra.

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