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Cos'è (e come funziona) una Casa Rifugio

Le poche richieste, l'inadeguatezza delle strutture e un esempio da imitare.

Di Camelia.boban da Wikimedia Commons


Nei due anni di crisi pandemica che ci siamo lasciati alle spalle un gran numero di donne vittime di violenza domestica è stato confinato in casa, costretto a condividere l’abitazione con uomini che non hanno perso l’abitudine di picchiarle, molestarle. Anzi, i mesi di lockdown sono stati semmai un’occasione per accanirsi.


Il 21 novembre 2021 l’Istat ha pubblicato un report sugli effetti che ha avuto la pandemia sulla violenza di genere: nel 2020 sono state 13.700 le donne che si sono rivolte per la prima volta a un Centro Antiviolenza (CAV), ma solo il 5,6 % di queste ha iniziato un percorso di allontanamento dall’ambiente familiare, domestico. Non basta: come accennavo sopra, per circa 7.700 donne (il 74,2%) la violenza non è nata con la pandemia: è solo che la pandemia l’ha portata fino al parossismo, rendendola insopportabile – stando sempre ai dati riportati dall’Istat il 40,6% delle donne subiva violenza ormai da più di cinque anni, mentre il 33,6% da uno a cinque anni. Nel 2020 i Centri Antiviolenza hanno offerto servizi di pronto intervento e messa in sicurezza al 12,6% delle donne con cui sono entrate in contatto, hanno attivato percorsi di allontanamento dalla violenza per il 14,2% di queste donne e offerto un diretto sostegno all’autonomia al 18%.


In Italia il 31,5% delle donne dai 16 ai 70 anni hanno subito una violenza fisica o sessuale.


Ora, dato che qui parleremo soprattutto delle Case Rifugio, conviene distinguerle dai Centri Antiviolenza. Questi ultimi, che sono più che altro un punto d’appoggio iniziale, sono stati definiti all’interno della Conferenza Unificata del 27 Novembre 2014, Capo I art.1, come «[…] strutture in cui sono accolte – a titolo gratuito – le donne di tutte le età ed i loro figli minorenni, le quali hanno subito violenza o che si trovano esposte alla minaccia di ogni forma di violenza, indipendentemente dal luogo di residenza». Strutture che devono assicurare il rispetto della privacy, essere aperte cinque giorni a settimana, mettere a disposizione del pubblico un numero di telefono gratuito e sempre reperibile, avvalersi di un personale esclusivamente femminile e formato in materia di violenza di genere e assicurare la presenza all’interno della struttura di assistenti sociali, educatrici e avvocate civiliste e penaliste. Le Case Rifugio, invece, sono letteralmente delle case segrete, definite al Capo II art. 8 della stessa Conferenza Unificata, come «[…] strutture dedicate, a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini […], con l'obiettivo di proteggere le donne e i loro figli e di salvaguardarne l'incolumità fisica e psichica». Come i Centri Antiviolenza, devono assicurare la privacy e l’anonimato delle donne che ospitano, e anche garantire un certo numero di servizi e procedure: dall’ospitalità gratuita alla definizione e attuazione di un progetto per l’allontanamento dall’ambiente domestico; dalla collaborazione costante con la rete sociosanitaria e assistenziale del territorio a servizi educativi e corsi di formazione per il reinserimento lavorativo; ma soprattutto servizi di supporto psicologico, di consulenza legale, di orientamento al lavoro, all’autonomia abitativa, di mediazione linguistica e di sostegno alla genitorialità. Nei Centri Antiviolenza, insomma, si va per chiedere aiuto, per avere delle opzioni, per incontrare avvocate e psicologhe a cui chiedere dei consigli; nelle Case Rifugio invece ci si va ad abitare, per sfuggire alla violenza, per allontanarsi dai pugni e dai calci, per non avere più il volto tumefatto o il corpo pieno di ecchimosi.


Posizione e distribuzione dei Centri Antiviolenza sul territorio nazionale.


Numero di Case Rifugio per regioni.


Posto che è ancora necessario un grosso lavoro di sensibilizzazione – un po’ perché sono molte le donne che non conoscono l’esistenza di queste case e un po’ per uno diffuso sentimento di sfiducia e rassegnazione, che va ascoltato e riconosciuto – il momento in cui una donna sceglie se allontanarsi o meno dall’ambiente domestico, e quindi di entrare o meno in una Casa Rifugio, è forse quello più delicato dell’intero percorso, perché entra in gioco un intreccio di sentimenti, timori e percezioni della realtà anche molto diverse tra loro e non sempre facili da decifrare, che a volte può condizionare radicalmente le scelte successive (se andare avanti o fermarsi, se denunciare o meno il proprio partner). Funziona così: un piccolo numero di psicologhe e operatrici cerca di creare un ambiente il più possibile favorevole al dialogo, per guadagnarsi la fiducia di chi, comprensibilmente, fatica a concederla – di nuovo, per ragioni diversissime, tra cui il timore per la propria incolumità o di essere separate dai figli, l’umiliazione e la vergogna che scatena la violenza subita, la paura di essere considerate delle bugiarde ed essere umiliate pubblicamente, persino un residuo affetto – poi, terminato il colloquio, si cerca di stabilire il rischio che si corre rientrando nell’abitazione (per capire quanto è urgente l’allontanamento e quanto in fretta bisogna procedere) e si individua una Casa Rifugio disponibile, sicura e vicina. Solo dopo tutti questi passaggi, che sono fondamentali perché le vittime si sentano tutelate, protette e soprattutto perché non si sentano sole, inizia la procedura di allontanamento, a seconda dei casi, ad opera delle forze dell’ordine, delle strutture sanitarie, dei servizi sociali dei Municipi, della sala operativa sociale, dei Centri antiviolenza, delle stesse Case rifugio o delle strutture del circuito di accoglienza.


Dal punto di vista architettonico è difficile definire un modello efficiente di Casa Rifugio, un po’ perché non esistono riferimenti concreti e un po' perché non c’è una normativa che aiuti le amministrazioni a farsi un’idea precisa della specificità degli spazi, di come vadano pensati e organizzati. Del resto, ci sono voluti più di venticinque anni prima che la Comunità Europea iniziasse a considerare la violenza di genere un argomento di interesse politico e legislativo – la Convenzione di Istanbul fu adottata solo il 7 aprile 2011, e aperta ai firmatari l’11 maggio. In Italia, per esempio, almeno fino al 1981, vigeva il Codice Rocco, che recitava così: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni». Significa che stupri e molestie non erano considerati delle violenze subite dalla persona ma una questione di morale pubblica, un «delitto d’onore». In questo senso, il primo step della Repubblica Italiana verso una legislazione mirata a proteggere le vittime di violenza di genere è l’approvazione della Legge n.66 del 15 febbraio 1996 (che di fatto riconosce la violenza sessuale come un reato in sé ); ma, di nuovo, è solo in risposta all’approvazione della ratifica della Convenzione di Istanbul che le cose cambiano davvero, e cioè quando il 27 giugno 2013 viene firmata la Legge n.77, che prevede: «Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011». Insomma, dato il ritardo istituzionale nel riconoscere come reato e perseguire la violenza di genere, non sorprende che i progetti delle strutture in larghissima parte sembrino disegnati con una certa trascuratezza, cioè senza che si sia riflettuto a sufficienza sull’organizzazione, sulla funzione e sulla finalità degli spazi.


Parlando con le amministrazioni di Roma e di Venezia, per esempio, s’impara che le condizioni in cui vivono le donne nelle Case Rifugio sono tutt’altro che ottimali: sovraffollamento, disfunzionalità diffuse, spazi inadeguati per una sana convivenza. Vediamo qualche problema in ordine sparso: ogni edificio[1] può ospitare dalle otto alle dieci donne, ma i bambini sotto i tre anni – inspiegabilmente – non vengono contati, e capita che in alcuni momenti all’interno delle Case Rifugio il numero di ospiti superi di gran lunga il massimo consentito; le camere da letto, anche se rispettano gli standard minimi previsti dalla legge (9 m² per una singola e 14 m² per una doppia), sono spesso troppo piccole, soprattutto se si pensa che alcune madri hanno più di due figli a carico, i quali (è il caso di specificarlo) sono costretti a passare la maggior parte del tempo in spazi molto stretti e del tutto inadatti a qualsiasi attività ricreativa; i servizi igienico-sanitari – tanto i bagni quanto gli spazi dedicati alla cura di bambini e neonati – sono per lo più condivisi con le altre donne residenti nella Casa, con tutti i problemi di privacy che questa condivisione può comportare; persino la zona giorno, che dovrebbe favorire il ritorno alla socialità, al dialogo e aiutare a coltivare rapporti positivi (e quindi essere, questo sì, un reale spazio di condivisione), è quasi sempre troppo piccola per soddisfare le esigenze minime delle ospiti, e finisce per innescare dinamiche conflittuali evitabilissime (per esempio, a causa di frigoriferi e dispense non compartimentate, tavole e piani cottura troppo piccoli); invece, gli spazi comuni, come il soggiorno, sono pressoché inesistenti – e va da sé che la mancanza di spazi del genere esclude quasi a priori la possibilità di avere un posto in cui stare da sole e ritrovare un po’ di serenità.


Prima ho detto che definire un modello efficiente di casa rifugio è difficile anche perché non esistono riferimenti concreti. Ma è vero solo in parte. Nel 2018 a Tel Aviv-Yafo, in Israele, è stato completato un bel Rifugio per donne e minori vittime di violenza domestica. Il progetto è nato da una collaborazione tra due studi di architettura, Amos Goldreich Architecture e Jacobs-Yaniv Architects, e pensato insieme al personale che occuperà la struttura. Ispirato a Okamoto di Eduardo Chillida, da cui deriva l’idea di scavare una montagna, l’edificio mostra all’esterno una pelle ruvida e corposa, ottenuta lavorando per sottrazione di spazi, che dialoga con interni lisci e delicati, ha diverse aree comuni – tra cui un asilo nido, una sala computer, dei servizi di lavanderia, delle cucine e un refettorio – e un piccolo giardino interno che rappresenta il punto focale della struttura, diventando luogo di incontro, di connessione tra l’interno e l’esterno; ma, soprattutto, non è ripartito per camere: si compone di piccole e deliziose case che permettono alle famiglie sia di vivere appieno la propria intimità che di condividere la giornata, se lo preferiscono, con altri residenti. Ecco: ammirare, prendere appunti, imitare.


Il nocciolo della questione è che perché le Case Rifugio siano davvero un luogo di riparo, conforto e ripartenza, come dovrebbero essere, c’è bisogno di progettisti che sappiano disegnare spazi capaci di accompagnare le ospiti, anche inconsciamente, nel loro percorso, di consegnare loro un luogo sicuro dal quale poter ripartire per costruirsi una nuova vita. Cominciare, come è stato fatto a Tel Aviv-Yafo, parlando con le ospiti, e con le altre figure coinvolte nella vita dell’edificio (psicologhe, educatrici, operatrici sociali), per capirne le esigenze e stabilire di che spazi hanno bisogno, mi sembra un bel modo di cominciare. L’architettura può trasformare uno spazio in un luogo, conferire a un’entità fisica un preciso valore socioculturale, e può soprattutto contribuire a una disposizione più ottimista nei confronti della vita, a ridurre il peso delle umiliazioni patite; ma è chiaro che la figura dell’architetto non è sufficiente: è necessario che collaborino le amministrazioni, le associazioni e le figure competenti, così da poter individuare una linea comune d’intervento più solida.


[1] Ci riferiamo appunto alle strutture presenti a Roma e Venezia, dato che con loro abbiamo avuto modo di dialogare. Ma l’impressione è che si tratti di problemi strutturali, non circoscrivibili a queste due realtà.

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