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Arrendersi al mondo

Perché non cambiare il modo di stare a scuola?


Succede che, durante una di quelle cene a cui non si dovrebbe mai partecipare, un ex-collega mi comunica, ma non gliel’avevo chiesto, che «sai, i miei studenti non è che non ce la fanno, è che manca l’interesse. Ma per tutto quello che non scrollano su TikTok, mica solo per la mia materia! Ci vogliono più ore fatte come si deve su Dante, su Botticelli, credi a me». Succede che il giorno dopo «Echo Raffiche» pubblica un pezzo in cui Lorenzo Postai recensisce Sei vecchio di Vincenzo Marino. Succede che dopo aver letto il pezzo, sorprendo me stesso – una persona anche piuttosto pacata, che sta facendo un podcast per provare a ragionare sulla scuola senza litigare e, soprattutto, evitando la retorica, le supercazzole (si chiama Tarapia Tapioco, anche perché i film di Tognazzi sono una delle poche cose belle che ha da offrire la vita) – a pensare che, per risolvere il problema della selezione degli insegnanti (la formazione è un’altra faccenda), bisognerebbe creare in provetta un insegnante-tipo con la curiosità di Marino, clonarne un buon numero e farla finita licenziando tutti gli altri – ossia tutti quelli convinti che l’unica formazione degna sia quella che ha prodotto esseri umani come loro, e che si possa formare così anche chi va a scuola oggi. Ma non succederà, perciò bisogna attrezzarsi. Anticipo l’obiezione: sto ovviamente esagerando, so che le scuole sono piene di bravi insegnanti, che si impegnano e si interessano. Ma facciamo che tra italofoni ci si capisce? Quello che voglio dire è che lo sfogo irriflesso del mio ex-collega ha un sottotesto, non so se più paternalista o misoneista, molto chiaro; e che non è raro sentire insegnanti (specie quelli di materie umanistiche, che hanno fatto Lettere per aggiustare l’umanità) sfogarsi in questi termini. E non è detto che sia un bene per la scuola.


La prendo un po’ alla lontana, portate pazienza. Il nocciolo della questione è questo: il mondo della scuola è un mondo in cui la frequenza con cui si discute, si incrociano e si avvicinano persone non cala mai nel tempo. Immaginatevi un insegnante che abbia quattro classi, e immaginatevi che in ogni classe ci siano, che so, venti studenti. Ecco, quell’insegnante vedrà, grosso modo, settanta persone al giorno. Poi ci sono i colleghi, cioè gli altri insegnanti, il personale ATA, i consigli di classe, le assemblee, gli incontri con i genitori. Non basta. Ciò che il rapporto educativo stesso produce è una trama, a volte anche molto fitta, di relazioni, di significati, di senso; può anche sembrare scontato (non lo è, non lo è mai), ma il fine di una relazione educativa è quello di produrre degli esseri umani capaci di agire in un certo contesto sociale, di muoversi in mezzo ad altri esseri umani, di conviverci. È per questo che la scuola – l’istruzione, l’educazione che la scuola sceglie di fornire – rende possibile il cambiamento sociale: perché ha un ruolo importantissimo nel definire i modi e i tempi con cui gli individui si inseriscono in società – certo, in continuità con altri attori sociali. O almeno questo è quello che dovrebbe succedere. Concretamente, però, mi pare che il rapporto tra la scuola da un lato, ossia tra chi la dirige, chi la gestisce e chi la fa funzionare, e le famiglie, i media e gli studenti stessi dall’altro, si sia in qualche modo rotto. Per i ragazzi, per esempio, soprattutto per quelli che dispongono di un capitale culturale minore, la dimensione discorsiva della cultura (o meglio, della cultura che si fa e si deve fare a scuola), i tempi lunghi di certe fruizioni, di certi ragionamenti, sono difficili da comprendere. Non per colpa loro, che si sono abituati a ricevere notizie e informazioni brevissime in tempi molto rapidi, a un melange di fonti, a volte affidabili a volte molto meno, tra le quali è spesso difficile distinguere, separare, che sono continuamente distratti da mille stimoli (ma poi tutti: voi davvero riuscite a leggere qualcosa sul pc senza aprire, dopo i primi venti minuti, YouTube o Twitter? Se la risposta è sì, ho bisogno di parlarvi).


Ora, può darsi che si tratti di uno scollamento in buona parte inevitabile. Come giustamente osserva Postai, la distanza che c’è tra la nostra generazione e la Gen Z è enorme, a volte siderale: abbiamo riferimenti diversi, usiamo formule e linguaggi completamente diversi e abbiamo diverse fissazioni. Noi non abbiamo davvero passato le nostre giornate online, loro in gran parte sì, e se questo da un lato li ha avvicinati a prodotti e consumi culturali molto eterogenei, dall’altro li ha anche resi più dipendenti dalle bolle che si formano sul web, dai rabbit hole in cui capita di cadere; e insomma ha fatto in modo che i loro consumi siano spesso orientati da algoritmi pensati per questo: per guidare in maniera irriflessa la fruizione del pubblico. Ma può anche darsi che la nostra scuola, una scuola asserragliata, che ha rinunciato a dialogare con il mondo di cui i ragazzi hanno più esperienza, cioè quello della cultura pop che gira su internet e satura i social, una scuola che molti docenti abitano con la mentalità degli assediati, ostinandosi a propinare ai ragazzi ore di lezioni frontali noiosissime sull’Adelchi, a farsi largo a colpi di spiegazioni e verifiche – con il bel risultato che i ragazzi le ore di lezioni le attraversano in apnea, come si fa con gli ambienti più estranei e ostili – ecco, può darsi che questa scuola, questo modo di fare scuola, sia responsabile, almeno in parte, di questo scollamento. C’è questo dato che a me pare illuminante: se prendiamo gli studenti resilienti, come si chiamano in letteratura, e cioè quelli che hanno alle spalle un background socio-economico svantaggiato ma, nonostante tutto, se la cavano piuttosto bene (quindi i casi più virtuosi, quelli che, bene o male, la scuola la frequentano con profitto), nei paesi OCSE sono nove su dieci quelli convinti che potranno conseguire un titolo di studio alto; in Italia solo sei.


Il fatto è che lavorare in questo modo non produce niente in cui sia in gioco anche la personalità dei ragazzi, la loro esperienza del mondo e della vita. E, per tagliare corto e arrivare dritto al punto, è la maniera migliore per fare in modo che tutto scivoli via, che passi, che la lezione sia utile non in sé ma in funzione della verifica, del test; e, soprattutto, per alienare il processo educativo, per fare in modo che non appartenga a nessuno, né agli studenti né agli insegnanti. Dunque perché non cambiare? Anzi, perché non arrendersi? Perché non darla vinta ai barbari, al mondo là fuori? C’è questa bella frase di Kafka: «nella lotta tra te e il mondo, stai sempre dalla parte del mondo». Ecco, al netto del ruolo conservatore che ha la scuola (che è soprattutto quel posto in cui si studia Tucidide, Baldassare Longhena e, più in generale, in cui alla fine dell’anno la vita degli studenti ha incrociato quella di Guicciardini, Montale o Caravaggio), aveva ragione.


Dice: vabbè, ma non è che uno a scuola può mettersi a discutere dell’arte e del making of di Bloodborne, a parlare di fudanshi e fujoshi o di Mattia Stanga. A parte il fatto che vien da chiedere quale sia la ragione di questa reticenza (perché uno può anche sospettare che tradisca un certo paternalismo, un’idea legnosissima di cultura), a me sembra invece che la libertà in classe debba essere grandissima, e cioè che debba essere lecito discutere più o meno di tutto. E per due ottime ragioni. La prima è che i ragazzi tra i tredici e i sedici anni hanno delle idee spesso vaghe, confuse o superficiali (ma non vuol dire che siano stupide), e per portarli a ragionare, a scendere, come si dice, più in profondità, il modo più efficace non è quello di indossare l’abito da predicatore e profondersi in sermoni catechistici, ma discuterne con loro, facendogli articolare queste idee davanti a un pubblico (la classe e l'insegnante) che può obiettare, porre domande e farne venire in mente altre. La seconda è che insegnare significa anche, e forse soprattutto, lavorare giorno per giorno, prefiggendosi obiettivi realistici e, se è il caso (e spesso è il caso), anche modesti. Voglio dire che a un certo punto, nel lavoro quotidiano che si svolge in classe e a casa, durante la preparazione delle lezioni, uno deve partire da certi elementi di cogenza, vedere le cose per quelle che sono e stabilire delle priorità: è più importante creare degli esseri umani che sappiano distinguere una fonte affidabile da una inaffidabile, che sappiano ragionare su quello che vedono, ascoltano e leggono, sui prodotti culturali di cui fruiscono, o degli esseri umani che sappiano individuare ed elencare tutte le endiadi che si trovano nella Commedia e spiegare perfettamente come funziona una retrogradatio cruciata? Il che non significa che Dante non va fatto, ma solo che, se si mette da parte per un attimo la retorica (cosa che a un certo punto, se vogliamo discutere seriamente di scuola, dovremo pur fare), restano due fatti: (1) che i classici, e la letteratura più in generale, non possiedono alcuna qualità taumaturgica e non guariscono al tatto; (2) che, com’è ovvio, per un essere umano che deve sopravvivere nel presente, che deve cercare di capirne le dinamiche, i dispositivi e il meccanismo (senza esagerare: nessuno ha le chiavi del mondo), è più importante leggere i libri che vengono scritti oggi. Quindi, per tornare a quello che dicevo prima, e cioè che sarebbe importante produrre qualcosa in cui i ragazzi possano mettere in gioco almeno una parte della loro personalità, perché non chiedere agli studenti di parlare e di scrivere di cose che conoscono, che li entusiasmano, e di presentare di fronte alla classe una relazione? Perchè, più in generale, non abituarsi a far scrivere agli studenti dei piccoli saggi sulla base dei loro interessi e di una bibliografia concordata con l’insegnante? Perché non sostituire questa buona pratica ai compiti a casa?


Poco più che buoni sentimenti, si dice. E può darsi che sia vero (almeno in parte, lo è) ma, a parte il fatto che tutto questo astio nei confronti dei buoni sentimenti inizia a essere un po’ fastidioso, oltre ai buoni sentimenti c’è una questione molte concreta: anche volendo ignorare il fatto che questi ragazzi prima o poi dovranno scrivere una mail o chiedere un aumento, e sarebbe meglio (per loro) se lo facessero in un buon italiano, come può un ragazzo che non distingue un che relativo da un che congiunzione leggere bene Dante? Come può un ragazzo che non capisce un testo scritto capire quello che scrive Dante (o Leopardi o Tasso o Calvino o chiunque altro)? Non è che non bisogna fare Dante: è che Dante, per ovvie ragioni, viene dopo. Prima bisogna imparare a leggere bene, a scrivere bene.


E però alla fine, anche considerato tutto questo, francamente non me la sento di accusare il mio ex-collega o, più in generale, gli insegnanti. Un po’ perché l’attuale sfacelo della scuola è il risultato di un farandola di errori, ritardi, barriere sindacali e abdicazioni politiche che si sono accumulate negli anni, nei decenni, e quindi è impossibile (e, verrebbe da dire, inutile) chiedersi di chi è la colpa, assegnare torti o emettere condanne; e un po’ perché gli insegnanti brancolano nel buio. Voglio dire che al milione (o quasi) di insegnanti che girano nelle scuole italiane non è stato detto qual è il modello a cui si dovrebbero ispirare, né è stato dato un sistema entro il quale inserirsi, perché la scuola italiana, semplicemente, non ha un'identità. Ecco, forse sarebbe il caso di partire da qui: di accordarsi sul sistema scolastico che vogliamo costruire e darci il tempo di lavorare per costruirlo, per formare e selezionare bene i docenti che in quel sistema scolastico dovranno inserirsi e insegnare. In questo senso, chiedersi quanto ci sia di unitario oggi nel percorso formativo degli adolescenti tra gli undici e i diciotto anni e riflettere sulle cause della loro fortissima demotivazione, potrebbe essere un buon modo per iniziare a ragionare su che tipo di scuola vogliamo costruire, per capire se, almeno su alcuni punti, può esserci un largo consenso che si traduca in volontà politica. Ovviamente, è inutile sperare che la salvezza possa arrivare dal Miur.



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